Thursday, April 12, 2012

La sedia, made in Italy, di Wittgenstein

Pubblicato su http://www.distorsioni.net 26/03/2012
La sedia di Wittgenstein
S/T
Uscita: 19 Settembre 2011 - Hysm?

La primavera è arrivata con un po’ d’anticipo ma quale occasione migliore per iniziare a fare un po’ di pulizia tra i miei file. In un angolo nascosto del mio HDD ho trovato uno scampolo di musica italiana che il nostro gentilissimo capo redattore mi aveva mandato qualche mese fa, poco prima di Natale. Si tratta di un gruppo italiano: La sedia di Wittgeinstein. Il suo omonimo lavoro è il progetto di Stefano Spataro alla batteria, synth e sassofono e Piero Prudenzano: chitarre, giocattoli e vari rumori. Il demo è stato registrato nel Dicembre 2010 presso gli studi di Solquest lab. Ho cercato invano altre informazioni su questo progetto ma non sono riuscita a cavare un ragno dal buco dalla tela informatica. Quella di “La Sedia di Wittgenstein” è improvvisazione pura che lascia un po’ perplessi al  primo ascolto. Chitarre distorte che si mescolano a registrazioni lo-fi, giocattoli, arie di musica lirica. Un’improvvisazione tra sogno, psichedelica e rumori.
Come si legge nelle poche righe che accompagnano il disco: ‘questi sono 44 minuti di instabilita’ emotiva sonora, questo disco è dedicato a Ludwing Wittgenstein, personaggio divertente della logica, ispiratore e guru dell’arredamento contemporaneo’.  Ovviamente è un po’ una presa in giro alla concezione di Wittgenstein del processo mentale. Questo maestro della logica affermava infatti che quando una persona sente la parola “sedia” il suo cervello accede a un simbolo astratto che rappresenta la sedia nella sua essenza o quello che Wittgeinsten potrebbe chiamare ‘sedi-ezza’. Ma i brani di “La sedia di Wittgenstein” scardinano anche i canoni della logica delle classiche composizioni musicali. Potete sentire Autocoscienza di una bomba  per batteria, chitarra e frammenti vocali estratti da un film, e  Ikea Dream Part per synth e chitarra distorta per farvi un’idea. Nell’insieme questi compositori o giocatori dell’illogicità musicale italiana sfornano un primo disco degno di interesse.  Non aspettatevi  quindi un gruppo melodico italiano o uno di quei cantautori barbuti e tristi che vanno tanto di moda. La sedia di Wittgenstein si propone a modo suo, nel bene e nel male, come qualcosa di innovativo nell’attuale panorama musicale italiano.

Dance norvegese

Pubblicato su http://www.distorsioni.net 22/03/2012


22 marzo 2012 Dance, elettronica →
Lindstrøm
SIX CUPS OF REBEL
2012 - Smalltown Supersound
[Uscita: 6/02/2012]

l norvegese Hans-Peter Lindstrøm è oggi uno dei nomi più interessanti dei dance floor. Conosciuto per i suoi remix di LCD Soundsystem, Franz Ferdinand e le sue collaborazioni con Prins Thomas e Christabelle, Lindstrøm è riuscito a portare una ventata di  aria nuova sulla scena dance underground. In molti si ricorderanno anche del suo 12” “I Feel Space” che aveva riscontrato successo tra djs e critica musicale mondiale. Dopo quattro anni di assenza per aver rifiutato di accordarsi con varie major, esce in queste settimane, “Six Cups of Rebels” per la  sua etichetta indipendente Smalltown Supersound. Sette tracce per più di un’ora in un universo dance che spazia tra la disco, prog music e acid house. Con un  background musicale piuttosto orientato sul country e la folk music, Lindstrøm non ha seguito una corrente ben precisa ma piuttosto la sua idea personale di come la musica “dance” dovrebbe suonare. E in questo sta la sua originalità.
 Nella sua musica non si trova infatti soltanto un riferimento alla dance odierna, ma si spazia fra tutti i suoi sottogeneri. “Six Cups or Rebels” si apre con un mantra psichedelico per organo synth che ci porta in territori musicali che già appartenevano a Jean Michel Jarre. A seguire De Javu: all’inizio richiama le atmosfere dei Basement Jaxx e uno dei loro titoli più famosi, Rendez-vous, ma poi finisce in un delirio funkedelico sostenuto da un giro di basso ipnotico e inni di voci Motown. Magik inizia con un groviglio di tastiere a cavallo tra le musiche di Cerrone e James Taylor Quartet. Quiet Place to Live è un mantra acid house su parole mormorate. I primi minuti di Call me at anytime ci introducono in un paradiso artificiale tra falsi cinguettii d’uccelli e rumori di cascate, per poi immergerci in una jam session per sola batteria e Hammond.
Anche se l’inizio è un po’ sconcertante dopo il terzo minuto il brano sfocia in una strepitosa dance sulla base di un’irrestibile riff di chitarra flamenca. Six Cups of Rebels ci catapulta in una jam funkedelica che lentamente lascia spazio alla sola tastiera per virtuosismi spaziali. A chiudere il disco Hiena dove ancora una volta Lindstrøm ci dimostra di essere un mago della tastiera e della creazione di paesaggi sonori senza tempo, che spaziano negli ultimi quarant’anni della musica da discoteca. Sicuramente se siete amanti della musica disco e dei sintetizzatori “Six Cups of Rebels”  non vi deluderà, ma è anche un disco consigliato se avete voglia di sgranchire le vostre gambe e/o  provare le vostre mosse “ballerine” sui migliori dance floors.

Il genio musicale di Mike Hadreas

Pubblicato su http://www.distorsioni.net 13/03/2012
Perfume Genius
PUT YOUR BACK N.2 IT
2012 - Organs/Turnstile/Matador
[Uscita: 20/02/2012]

“Put Your Back N.2 It” è una preziosa pietra musicale che vi farà battere forte il cuore anche se non avete un animo sensibile. Dovete solo dedicarle un po’ di tempo e magari procurarvi anche i testi da leggere in versione originale o tradotti. Le  canzoni di “Put Your Back N.2 It” svelano tutta la fragilità e allo stesso tempo l’intensità del personaggio che si nasconde dietro Perfume Genius: Mike Hadreas. L’avevo scoperto un annetto fa quando Valentina aveva messo un suo video su facebook ed è stato “amore a primo ascolto”. Ho cercato altre informazioni su Mike Hadreas ma in quei mesi  circolava poco e con mio rammarico persi anche il suo concerto al festival di Primavera a Barcellona nel 2011. Ma piano piano iniziano a circolare delle notizie a suo proposito. Mike Handreas inizia a comporre musica come Perfume Genius nel 2008 a casa di sua madre nello stato di Washington dopo essere uscito da un periodo di eccessi tra alcool e droga trascorsi a New York.
Pubblica poi le sue composizioni su una pagina Myspace con annessi dei video musicali fatti in casa. Il gruppo Los Campesinos si accorge di lui e gli fanno pubblicare per la loro etichetta Turnstile, il singolo Mr. Peterson, la storia di un insegnante di scuola superiore, pedofilo morto suicida. Nel 2010 il primo disco sempre su Turnstile, la lunga tournèe mondiale del 2011 che lo vede affiancare musicisti come Sufjan Stevens e Beirut.  E a fine febbraio il suo atteso secondo disco. “Put Your Back N.2 It”  è uscito già da qualche giorno ma poco importa che questa recensione vi arrivi in ritardo, questo é un disco senza tempo che riascolterete anche tra vent’anni. Le canzoni di Mike Hadreas parlano del rapporto difficile con la sua omosessualità, della violenza fisica e psicologica  che divora non solo lui ma anche le persone e il mondo che lo circondano. Un disco dove pur si avverte anche solo un barlume di speranza, costruito con la nostra forza interiore, con la speranza e con l’amore.
Il disco si apre con un melanconico pianoforte che accompagna la sua dolce voce per  Awol Marine. Un brano dedicato a dei personaggi costretti a girare dei video porno per pagarsi delle medicine. Un testo molto intenso che ci dà l’impronta dello stato emotivo che accompagnerà tutto il disco. Mike Hadreas non è soltanto un ottimo musicista ma anche un fine poeta contemporaneo che incarna le ansie e gli stati d’animo di molti di noi. Normal Song con solo voce, chitarra classica ed un piano che entra delicatamente nella seconda parte della canzone, inneggia alla speranza dopo aver attraversato i peggiori momenti della vita. No Tear ci sprona ad imparare ad essere forti nonostante gli abissi di disperazione che ci sovrastano. 17 racconta i rapporti conflittuali degli adolescenti con il proprio corpo fino ad arrivare sull’orlo del suicidio. Si continua sulle note di un synth e pianoforte per Home Away, lontano da casa, quella situazione nella quale si e’ disposti a rinunciare a tutto, persino a cancellare se stessi fino alla prostituzione, per elemosinare un po’ d’affetto per la paura tremenda di rimanere da soli. Segue Dirge, una poesia del 1921 di Edna St. Vincent Millay, una delle più grandi poetesse e femministe americane del secolo scorso.
Poesia nella quale la voce tremula di Hadreas trova forza nella sua fragilità. Dark Parts e’ sicuramente la canzone piu’ difficile  e intensa del disco, che descrive gli abusi di suo nonno su sua madre. All Waters rimane, a mio avviso, il pezzo piu’ emozionante del disco, con un crescendo della voce da brividi. Mike Handreas s’interroga sul rapporto con il suo compagno, Alan Wyffels, che collabora con lui per la stesura di molti pezzi. Una relazione omosessuale che mai potra’ vivere con la stessa liberta’ di spirito di una eterosessuale: anche il semplice e naturale prendersi per mano è visto come un evento eccezionale, una rivincita sugli altri e su se stessi invece che un semplice atto automatico e spensierato. Quindi Hood, una canzone sull’amore e l’attesa, coadiuvato da un video abbastanza provocatorio uscito su You Tube a Gennaio, dove si vede Mike Hadreas cullato, truccato e pettinato dalle possenti braccia della porno star gay Arpad Miklos.
Si arriva al pezzo che dà il titolo all’album, Put your back N.2 It,  un’altra canzone incantevole da pelle d’oca, dove l’amore gay e’ descritto come un amore diverso e complesso anche dal punto di vista sessuale. Floating Spirit, per synth e voce, racconta dei momenti in cui Mike Hadreas si e’ ritrovato sull’orlo dell’overdose, con lo spirito sospeso sulle porte dell’aldilà. Questo eccelso disco si chiude  con Song Sister, dedicata a tutte le persone che cambiano o che abbandonano la loro vita con la sicurezza e la speranza che i loro cari possano prendersi cura delle cose che lasciano alle loro spalle. Delle canzoni molto brevi ma allo stesso tempo molto intense che riportano alla mente, anche per la struttura poetica, Antony Egarthy. Con Perfume Genius ci troviamo davanti a uno di quei rari e talentuosi compositori del nostro periodo, fragile e forte nello stesso tempo, un narratore dell’insicurezza, dell’amore e della speranza che pervade ognuno di noi.

Correva l'anno 1990 - Intervista ai Marlene Kuntz -

Pubblicato su http://www.distorsioni.net 09/03/2012
Marlene Kuntz - Cremona Rock - Giugno 1990
Giugno 1990. Il giorno dopo la loro apparizione sul palco del “Cremona Rock” festival, incontrai i Marlene Kuntz per un’intervista. Musicalmente  i Marlene Kuntz erano figli di Sonic Youth, Dinosaur Jr, Gun Club e avevano, a quei tempi, un sound ossessivo, scarno, tagliente ma allo stesso tempo romantico e sensuale. Eccovi l’intervista, con i pensieri di musicisti ventenni.

Myriam Bardino (MB) -  Vorrei sapere come sono nati i Marlene Kuntz
Cristiano Godano (CG) -  Siamo nati in 5, ora siamo in 4. All’inizio avevamo un cantante Alex, che poi ha deciso di non continuare con noi. Io suonavo in un altro gruppo, i Jack on Fire. Abbiamo suonato ad Arezzo (si riferisce all’Arezzo Festival del 1988, N.d.R). Siamo stati assieme due anni, poi ci siamo sciolti per incompatibilità musicale, io volevo fare cose sempre più dure, loro volevano fare delle cose sempre più morbide. Ho trovato i Marlene, o loro hanno trovato me e ci piace molto quello che facciamo. E’ molto bello poter avere un’unione completa, nel senso che tutti siamo rivolti nella stessa direzione. E ci piace anche il fatto di poter cantare in italiano.  Abbiamo fatto molti concerti, forse quello più importante è stato a Cremona Rock di spalla agli Under Neath What. Abbiamo suonato a El Paso di Torino, che e’ un centro autogestito mitico, abbiamo fatto anche dei concerti fondamentalmente inutili con pochissima gente

MB - Degli Under Neath What che ne avete pensato?
CG - Musicalmente non mi hanno molto entusiasmato. Un suono molto compatto, bravi. Quello che facevano mi sembrava abbastanza ripetitivo. Cioè, dopo due pezzi si capiva che tutto il concerto era impostato in quel modo

MB - Ieri avete fatto una cover dei Sonic Youth, quindi penso che è una band che vi ha ispirato, quali sono le altre?
CG- Personalmente ho quattro fonti ispiratrici: Sonic Youth, Nick Cave, Tom Waits e i Gun Club, anche se i Gun Club hanno un suono che funzionava cinque o sei anni fa. Ad ogni modo sono innamoratissimo dei Gun Club come lo sono dei Sonic Youth. Poi in passato ho ascoltato tantissimo gli Husker Dü  anche se adesso sono lontano da quelle sonorità.
Luca Bergia (LB) – Per ora sto ascoltando molto i Fugazi
Franco Ballatore (FB) – Io i Soundgarden
Riccardo Tesio (RT) –  Io  parto dall’heavy metal: Metallica e comunque in questo periodo sto ascoltando molto i Pixies

MB - Della scena musicale di Cuneo che ne pensate?
CG – Mah, non c’e’ molto da dire, anche se c’era un gruppo qualche anno fa, gli Out Of Time, che aveva fatto parlare di sè a livello nazionale.

MB - Allargandoci alla scena italiana?
LB – A parte i CCCP non vedo gruppi di grande interesse. Poi non capiamo i gruppi italiani che cantano in inglese se non sono madrelingua. Anche se è una strada difficilissima, è meglio cantare in italiano.
CG – Quello che non mi piace da parte dei critici è  impostare la musica a seconda delle mode. Adesso c’è la moda dell’hard rock e dell’heavy metal rivisto in questa chiave (di li a poco sarà etichettata come “grunge”, N.d.R.). Mi stanno benissimo i gruppi come i Soundgarden, che mi piacciono tantissimo, però il fatto che un giornalista ti indichi qual'è la nuova via del rock e citi subito un codazzo di gruppi da seguire, dà abbastanza fastidio. Infatti, in Italia, mi erano piaciuti molto i CCCP all’inizio, perché erano riusciti a uscire completamente fuori dai canoni che venivano un po’ imposti e anche il cantare in italiano era abbastanza rivoluzionario e innovativo

MB - E i Litfiba?
CG – I Litfiba li apprezzo moltissimo (era lo stesso anno della pubblicazione di “El Diablo”, N.d.R) anche se non rientrano completamente nei miei gusti. Comunque loro sono su un altro pianeta, sono molto più professionali.
LB – Quello che i Litfiba hanno portato alla musica italiana è stato il raggiungere un vasto pubblico, al quale fanno ascoltare un certo tipo di musica rock, anche se non è il genere che mi appassiona di più.

MB - Peccato anche che ci siano stati degli screzi all’interno del gruppo
LB – Ma sai, è il problema della maggior parte dei gruppi. Appena si inizia a parlare di soldi seri iniziano i primi problemi

MB - Avete fatto qualche demo?
LB – Sì, stiamo registrando un nuovo demo al Puzzle Studio di Torino. Poi con la partecipazione a Pavia Rock abbiamo avuto l’occasione di registrare il nostro primo demo in uno studio di Tortona. Oggi ci troviamo un po’ spiazzati, con la dipartita del vecchio cantante dobbiamo remixare tutto e dobbiamo usare la voce di Cristiano al posto della sua.
CG – Comunque fare i pezzi su demo costa troppo, nel senso che è difficile farli fruttare. Li mandi così in giro, non sai che fine fanno. Secondo me, i demo, non sono cosi significativi. Bisogna farli perché è il processo delle cose, ma servissero un po’ di più, sarebbe meglio.

MB- Su vinile avete intenzione di fare qualcosa? (non si pubblicava ancora su cd, N.d.R)
CG – Beh ovviamente come gruppo vorremo arrivare lì.
LB – L’unica cosa che ci darebbe fastidio sarebbe fare un disco autoprodotto tanto per darlo agli affezionati.

MB - Cosa avete in cantiere nei prossimi mesi?
LB – Ci sarebbe forse un tour all’estero. E dovremo continuare a mandare  cassette ai concorsi più importanti.

MB - Quanto è difficile per un gruppo italiano farsi notare dal pubblico e dai media?
RT – Rispetto alla media possiamo ritenerci soddisfatti perché molti altri gruppi dalle nostre parti fanno sempre le solite cose

MB - Non pensate che in Italia i gruppi rock italiani siano poco aiutati?
CG – Purtroppo in Italia non c’é  predisposizione per ascoltare questo genere di cose, non c’e’ una mentalità, se possiamo chiamarla così, “rockettara”. L’underground è molto ristretto, c’è poca gente. Penso che una scena come quella inglese sia molto più positiva, aperta. I gruppi che qui in Italia faticano tantissimo, dopo aver fatto un disco, a girare e a farsi conoscere, se si trovassero in un paese come l’Inghilterra avrebbero moltissime più opportunità e lo stesso disco potrebbe addirittura entrare nelle classifiche indipendenti, cose che qui in Italia magari esistono solo a livello di classifica dei giornali: come Rockerilla, che ha quella dei “Migliori Dischi Italiani”, ma poi sotto sotto, se vai a vedere, le vendite sono minime.

MB - E per quello che riguarda la stampa, pensate ci sia spazio per i gruppi italiani?
CG – Penso che le cose in questi ultimi tempi siano leggermente migliorate, anche se si rimane sempre con la mentalità che il gruppo straniero è fondamentalmente migliore anche per esperienza e pratica. Ed effettivamente sotto certi punti di vista è vero. Un gruppo straniero comunque, secondo me, ha un approccio migliore di quello di un gruppo italiano. Non è una questione di incapacità degli italiani a fare le cose, è che manca proprio la possibilità di  suonare con continuità. Si suona di meno, in percentuale, rispetto agli altri posti: un gruppo all’estero ha molte più possibilità di esibirsi dal vivo e le ossa ovviamente te le fai suonando.
 C’è proprio questa questione dell’impatto visivo: ti sembra che il gruppo sia migliore, poi magari, tecnicamente, il confronto è alla pari. Un gruppo americano, o inglese, ha alle spalle centinaia di date, mentre uno italiano fa quello che può. Poi, per gli italiani è molto difficile andare a suonare all’estero, a parte se sei in certi circuiti come può essere per l’hardcore. Vedi il caso dei Negazione, si sono fatti le ossa all’estero, però sono andati a suonare in questi centri autogestiti, dove si chiamano a vicenda e si creano questi interscambi. Il problema è che se non fai questo genere è molto più difficile suonare fuori. Da noi fai quello che puoi: la classica tournèe in Italia è veramente difficile, se non hai un nome.

MB - Se una major vi proponesse un contratto, quali compromessi accettereste?
CG – Beh ci darebbe un po’ fastidio dover rinunciare a  cose che abbiamo sempre fatto. Penso che alcuni aspetti della nostra musica siano abbastanza duri, le nostre canzoni non hanno la tipica struttura che parte con le due strofe, il ritornello, poi l’eventuale assolo, tutto molto lineare. Non so se sia un pregio o un difetto, direi piuttosto un gusto. Ci rendiamo conto che facendo così siamo meno facili da ascoltare, ma questa è una cosa che ci riguarda personalmente. Anche i nostri ascolti e le nostre influenze sono basati su queste cose. Questa domanda mi sembra abbastanza avveniristica, a parte che una major non avrebbe nessun interesse a occuparsi di noi.
Però personalmente è un discorso che non mi sento di affrontare. A livello teorico e di orgoglio personale, è una cosa che aborro totalmente il dover rinunciare a cose che ho sempre fatto. Dovrei trovarmi nella situazione. Se mi offrissero dei gran soldoni, sempre a livello utopistico, non so fino a che punto starei sulla mia roccaforte. Ora come ora, a livello teorico, posso dirti assolutamente di no. Voglio fare le mie cose e continuo a farle. Sarei comunque curioso di vedere la mia reazione, dovesse succedere una cosa del genere. E succede a molti gruppi. L’esempio ultimo è quello dei Sonic Youth che sono stati costretti a remixare il loro ultimo disco (“Goo”. N.d.R) dopo aver firmato per una grossa casa discografica (Geffen,  N.d.R): dopo aver sentito i nastri, gli hanno imposto il remixaggio dei pezzi, perché secondo loro erano troppo grezzi. E questi sono i Sonic Youth, che sono sempre stati abbastanza arroccati sulle loro posizioni.
 Fondamentalmente non penso che ci sia un gruppo originale che se ne fotte di tutto e tutti e fa unicamente delle cose che gli interessano: perché quando un gruppo si accorpa a un trend, facendo un genere di musica, ricalcando una certa moda, non realizza, facendo così, l’espressione di una personalità, come invece viene sbandierato. Cioè, il fatto di fare canzoni con arrangiamenti che comunque ricordano questo o quell’altro genere musicale, ti fa avere una certa base di compromessi da cui partire. Tutti i gruppi sono condizionati dalle loro scelte musicali e mi sembra abbastanza normale il compromesso, in questo senso. Poi bisogna vedere cosa s’intenda per compromesso. Non è che tutto nasce dal cuore. Gli stessi Soundgarden fanno cose egregie, secondo me, adoro le loro due chitarre, però anche loro seguono questo filone hard rock e non penso che potrebbero ritornare a suonare come nel primo disco.

MB - Passando a un altro argomento, cosa avete pensato di Pavia Rock?
CG – Troppe mamme, troppi bambini e troppi papà. Il palco bellissimo con un suono magnifico con una buona organizzazione. Sono stati abbagliati dalla nostra coreografia quando il vecchio cantante usava una vecchia caldaia che chiamavamo “il bonghetto”

MB - Non lo usate più?
CG – Mah, siamo in quattro e io sono passato alla chitarra.

MB - Magari potete trovare un  ballerino/a che faccia anche improvvisazione
CG – Abbiamo provato con un ballerino e l’esperienza è stata catastrofica. Si è buttato in mezzo alla gente a pesce ed e' stato preso di punta da almeno sei o sette personaggi che lo volevano picchiare con forza. E’ stato interessante trovare qualcuno che facesse queste cose anche dal punto di vista fisico, un coinvolgimento sul palco ma anche tra la gente. Però, questo ragazzo ci aveva preso un po’ troppo in parola ed è stato un po’ troppo impulsivo, facendo poi delle cose un po’ troppo incontrollabili. Da noi (a Cuneo,  N.d.R), è proprio difficile trovare persone che siano disposte a fare certe cose.

MB - Durante i concerti preferite vedere il vostro pubblico ballare o attento?
CG - Quello che non abbiamo ancora capito è se la nostra musica possa far ballare o meno. Perché abbiamo dei momenti in cui la ritmica è molto presente e penso che inviti a ballare. Per esempio a El Paso siamo riusciti a sbloccare una situazione che si stava abbastanza appiattendo per dei gruppi che avevano suonato prima, anche perché forse non era musica adatta a un pubblico come quello che frequenta quel centro sociale. Abbiamo visto gente che ballava, mi sono ritrovato una ragazza scaraventata a un metro da me sotto il palco e mi sono abbastanza stupito della cosa.
Però effettivamente mi rendo conto che non è che abbiamo pezzi molto ballabili, sono molto violenti ma non così ballabili per via dei nostri stacchi strani. Quindi non riusciamo a capire se ci faccia più piacere vedere la gente che balli o la gente che stia attenta. Se la gente sta attenta e balla siamo al top della situazione. Comunque è bello avere una reazione dalla gente. Ci è successo anche di essere stati cacciati dal palco dall’organizzazione di un posto per via di una polemica. Addirittura era stata fatta una maglia (!?) ingiuriosa nei nostri confronti: comunque ci ha fatto divertire parecchio e dalle nostre parti abbiamo delle frange di persone che ci amano e delle altre che ci odiano, mai indifferenti.

MB - Volete aggiungere qualcosa?
CG - ... ma oramai abbiamo detto un po’ tutto ... speriamo solo che il prossimo disco dei Sonic Youth sia bello.

MB - Beh speriamo anche il vostro primo. Grazie e buona fortuna.


Disappears - Pre Language

Pubblicato su http://www.distorsioni.net 04/03/2012
Disappears
PRE LANGUAGE
2012 - Kranky
[Uscita: 1/03/2012]

Il 7 Dicembre de 2011 appariva questo messaggio sul blog dei Disappears: 'Possiamo finalmente annunciarvi l’uscita del nuovo album “Pre Language” per Kranky, il 1 Marzo 2012. E’ il nostro primo album di materiale registrato con Steve (ndr. Shelley) e non m’importa dire che e’ anche il nostro migliore'. E Brian ha avuto ragione anche questa volta.  Brian Case (ex 90 Day Men) alla voce e chitarra, Steve Shelley (ex Sonic Youth) alla batteria e gli eccellenti, Jonathan Van Herik alla chitarra e Damon Carruesco al basso sono i componenti  di questo super gruppo di Chicago formatosi nel 2008 e che incide su etichetta Kranky. Un album che si differenzia stranamente dal catalogo della label ma che stupisce e percuote. Ci sono molte sonorità post punk degli anni 80 dai Neu!, ai Can, ai Fall  ma si sentono anche  i primi passi di gruppi come Sonic Youth e anche moltissime influenze garage rock. Insomma uno di quei gruppi che se fosse nato trent’anni prima sarebbe stato uno dei principali punti di riferimento per la  scena post punk.
Ascoltiamo “Pre Language” e riconosciamo queste sonorità, sappiamo che fanno parte del nostro background musicale, come quel gioco delizioso delle chitarre nel pezzo che dà il titolo all’album e quel vortice psichedelico di Fear the Darkness e Love Drug. E non avremo già sentito Brother Joeline nei primi dischi degli Stooges? Un linguaggio musicale che conosciamo già, pre-esistente, un pre-linguaggio, fatto si di krautrock, garage rock, post punk, no wave, new wave ma che non ci stanchiamo mai di ascoltare in formati nuovi e diversi come quello che ci propongono  i Disappears. E sì, si sentono anche gli echi del primo grande disco dei 90 Day Men '[it (is) it] a critical band'. Sicuramente “Pre-Language” e’ un disco che stupirà per la struttura possente delle chitarre e il suo ritmo accattivante grazie alla bravura e tecnica di Steve Shelley che ha raggiunto la band dopo la dipartita di Graeme Gibson.
La voce di Brian a volte ricorda Mark E.Smith, a volte Alan Vega ma non posso impedirmi di pensare anche a Scott Mc Cloud dei Girls VS Boys. Inoltre il suono del disco è ineccepibile e si sente che dietro c’è una grande produzione. Questa volta ad opera di John Cogleton che molti di noi si ricorderanno per i The pAper chAse o anche per avere prodotto degli eccelsi dischi come quelli di Clap Your Hands Say Yeah, Explosion in the Sky,  David Byrne e innumerevoli altri. Gli ultimi due anni sono stati intensi per i Disappears: due dischi, uno dopo l’altro e dei tour in America e in Europa che li hanno portati l’anno scorso persino in Italia, e pare che abbiano ancora del materiale pronto a essere registrato. Ritorneranno per un tour a breve in Europa ma che questa volta non toccherà l’Italia e poi via per un tour in America dove suoneranno anche con Lee Ranaldo, e allora ritroveremo la metà pensante dei Sonic Youth. Un disco egregio. Grazie Kranky.

Windy & Carl - We will always Be

Pubblicato su http://www.distorsioni.net 18/02/2012

Windy and Carl
We Will Always Be
2012 - Kranky/Goodfellas
[Uscita: 6/02/2012]

Anche per delle occasioni futili come la festa di San Valentino, Distorsioni ha trovato il disco che fa per voi,  “We will always be” di Windy & Carl. Che siate pro o contro la festa degli innamorati, che siate in coppia o meno, che siate filantropi o misantropi, poco importa, ascoltate “We will always Be”  é un nuovo mondo si aprirà a voi. Ormai  Windy & Carl sono una vecchia conoscenza, già da quando nel 1998  l’etichetta Kranky, gestita da Bruce Adams e Joel Leoschke, iniziarono a pubblicare i loro dischi e molti musicisti a citarli tra i loro gruppi preferiti, come Bradford Cox dei Deerhunter. Questo undicesimo disco  “The will always Be” giunge dopo tre anni di silenzio. Dalla presentazione di questo ultimo disco, sul sito della Kranky, si leggono alcuni pensieri di Windy, tra cui: 'tre anni dopo l'ultimo disco (“Instrumentals For The Broken Hearted” - Blue Flea, 2009,  ndr.) siamo ancora insieme, e siamo ancora molto innamorati. Abbiamo trovato un modo per ritornare a tutte le cose che contano davvero, e, naturalmente, al centro di tutto, c’è la musica. Fare musica. La creazione di questo mondo' . Carl Hutgren e Windy Weber  infatti con “We will always be”, non solo celebrano il ventennale del loro progetto musicale ma anche il sentimento profondo che li unisce come coppia nella vita.
Sulla copertina: un girasole, simbolo della costanza e fedeltà assoluta  ma anche di adorazione che può sfociare in un’ossessività passionale. E secondo il linguaggio dei fiori, il girasole è simbolo di vero amore da parte di chi lo regala. Le canzoni di “We will always Be”  possono essere considerate come il simbolo d’amore di Carl, che le ha regalato a Windy in occasione del San Valentino del 2011: delle composizioni musicali molto intime che Carl iniziò a scrivere subito dopo aver superato dei momenti difficili all’interno della loro coppia. All’inizio le tracce dovevano essere esclusivamente riservate all’ascolto di Windy, poi Windy  ha cercato di convincere Carl a rendere queste tracce pubbliche.  Carl ha chiesto a Windy di collaborare all’arrangiamento di questi pezzi per il disco e Windy e’ stata pervasa da una gioia immensa. Fare questo disco con il suo amato Carl era quello che desiderava più dalla vita in quel momento e si e’ resa conto che dopo i periodi bui attraversati sono ancora innamorati, incapaci di vivere l’uno senza l’altra.
 E una canzone d’amore apre questo ultimo disco, For Rosa. La voce di Windy, chitarra acustica, ma nel sottofondo ci sono delle frequenze, il suono non e’ nitido, come per esprimere che anche in una situazione ideale, ci può sempre essere un elemento di disturbo. Con Remember e Spires iniziamo il viaggio verso i suoni per cui Windy & Carl sono già conosciuti: vagheremo per stratificazioni sonore e toni lussureggianti all’interno di un mondo fatto di vapore acqueo di cui Windy & Carl saranno artefici di una delicata colonna sonora. In The Frost in Winter il suono della chitarra di Carl molto pulito, semplice e di una bellezza disarmante, gioca sobriamente con gli effetti sonori. In Looking glass ritorniamo ad essere avvolti dalla nebbia degli effetti sonori, avvolti in un suono soave ed effimero che vi porterà verso universi ipnotici.
 Nature of the Memory rimane uno dei momenti culminanti di questo disco. La chitarra di Carl cerca di descrivere delle strade nel nostro paesaggio sonoro mentre a metà percorso ci imbattiamo nel sottofondo in quella che sembra essere una conversazione intima telefonica di una donna e un uomo che finisce in risate soffocate. Si percepiscono delle parole qui e lì, ma quello che più importante è che ci sentiamo quasi di essere di troppo, di interferire nell'intimità tra queste due persone, come se ci avessero rivelato un loro mondo e adesso volessero farci sentire colpevoli per averlo disturbato.  Dopo The Smell of Old Books che riprende i toni precedenti, l’album si conclude con Fainting In The Presence Of The Lord un pezzo di 19 minuti che forse non susciterà in voi l’amore per l’umanità o una persona in particolare, ma vi farà provare l’amore per la musica, quella con la M maiuscola.

La zona selvaggia di Piers Faccini


Pubblicato su http://www.distorsioni.net  4 Febbraio 2012

Piers Faccini
MY WILDERNESS
2011 - Six Degrees
[Uscita: 11/10/2011]

Eccellente musicista e pittore, Piers Faccini e’ uno di quegli artisti che non si può non amare. Trasferitosi nel sud della Francia lontano dalle luci del music business, Piers Faccini ama la natura, fare lunghe camminate tra i suoi amati monti e spendere le sue ore preziose con la sua famiglia e i suoi amici.  Oltre a essere musicista, Piers Faccini e’ anche un pittore che si dedica ai paesaggi e ritratti che sono esposti in gallerie d’arte. Per quel che riguarda la musica, per il decimo anno d’attività solista, fa uscire un nuovo album: “My Wilderness” (La mia parte selvaggia). Cantautore di origine anglo-italiane, cresciuto a metà tra l’Inghilterra e la Francia, Piers Faccini ha fatto i suoi debutti musicali a Londra evolvendo di seguito sulla stessa etichetta americana che ha ospitato i primi lavori di Jack Johnson. Con l’Everloving Records, Piers Faccini, ha iniziato ad essere conosciuto dal pubblico americano, ha avuto occasione di aprire il tour del 2006 di Ben Harper e di lavorare con famosi produttori musicali. La copertina di “My Wilderness” riproduce un’ autoritratto di Piers Faccini su un collage di mappe del mondo. Come se volesse rinchiudere in questo disco le diverse influenze musicali che lo hanno arricchito nei suoi viaggi, nei suoi incontri e nella scoperta di nuovi suoni. Infatti in questo disco ci sono diversi richiami al folk inglese, alla musica del Mali, al delta blues del Mississipi e alla musica balcanica.
 Ma, purtroppo, a volte il troppo “stona”. Ed e’ proprio quando Piers Faccini cerca di uscire dai suoi sentieri musicali, tracciati nei precedenti dischi, che si perde un po’ per strada. I ritmi balcanici di The Beggar and the Thief,  Dreamer, And Still the Calling cadono in un calderone pop un po’ troppo mellifluo. D’altro canto seguendo le orme delle persone con cui ha collaborato,Tribe e My Wilderness sono abbastanza amabili ma ripercorrono le non più gloriose scene musicali di Ben Harper. Anche That Cry  si muove verso strade noiosamente mainstream. Ma in tutto questo, la vera parte selvaggia, la “wilderness” di Piers Faccini  che sembrerebbe funzionare meglio e’ quella piuttosto rarefatta, calma e languida di Say but dont’ Say, un lento carico di emozioni, e le armonie di No Reply, Branches Grow, Strange is the Man che lo accostano alle leggende del folk inglese come Nick Drake, John Martyn, Bert Jansch. Three Times Betrayed  scava invece  nelle influenze orientali del folk progressivo europeo dei Pentagle e Spirogyra. Cinque magnifiche composizioni se avete voglia di ascoltare melodie dolci e folk e altre sei interessanti se siete appassionati di atmosfere blues e orientali nel mondo pop. Un disco che non vi deluderà, almeno per meta’

Wednesday, April 11, 2012

La classe musicale di Jonathan Wilson

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 2 Gennaio 2012


Jonathan Wilson - 21/11/2011, Hoxton Square Bar and Kitchen, London
Jonathan Wilson - Hoxton Sq.and Bar Kitchen - London - 21/11/2011
Stasera Jonathan Wilson chiuderà con questo concerto nella sala “Hoxton Square Bar and kitchen” il suo tour Europeo. Un tour clamoroso che lo ha visto spalla in quello inglese dei Wilco e aprire il concerto di Roy Harper per il Royal Festival Hall. Bisogna anche aggiungere che Jonathan Wilson e’ stato incensato dalla stampa britannica e europea come “la nuova sensazione musicale”: sue interviste, articoli e recensioni sono stati pubblicati sui maggiori quotidiani e stampa specializzati. Uncut l’ha nominato come migliore artista emergente per il 2011 e il suo album e’ arrivato al n.4 della classifica di Mojo per il 2011. Jonathan Wilson e’ figlio degli anni 70 anagraficamente e musicalmente. Con lui sembra che la musica si sia fermata al folk rock psichedelico dei Grateful Dead, Allman Brothers, Blind Faith, Quicksilver Messenger Service. Non per nulla lo stesso Wilson ha installato il suo studio di registrazione a Laurel Canyon, nel quartiere di Los Angeles che fu la culla della scena del folk rock da Joni Mitchell a Crosby, Still, Nash & Young agli eroi del rock degli anni 70 come Jimi Hendrix, Frank Zappa, Jim Morrison. Già produttore di artisti quali Erykah Badu, Phil Lesh, Elvis Costello, Jackson Browne, Chris Robinson, Will Oldham, stasera e’ invece musicista in una sala gremita di fans e addetti allo spettacolo. Jonathan Wilson si presenta sul palco con una band di musicisti talentuosi.
Jonathan Wilson - Hoxton Sq.and Bar Kitchen - London - 21/11/2011
Il concerto ci catapulta indietro di trent’anni sulla costa californiana. Gli strumenti sono gli stessi e l’equipaggiamento che accompagna la band prende quasi la metà del palco, come si usava negli anni 70. Lo show fluisce leggero tra alcuni titoli del primo disco di Jonathan Wilson “Frankie Ray” del 2007, disco interessante passato nell’indifferenza della critica e l’ultimo “Gentle Spirit”.
Gli animi s’infiammano con Desert Raven, The Way I feel, Valley. Non sorprende a metà concerto la cover dei Quicksilver Messenger Service Lovestrong. Bastoncini d’incenso che si accendono sul palco e fans incantati dal fascino e talento di questo non più giovanissimo musicista. Ci si prolunga in soli di chitarra e giri di synth che ci fanno ripiombare quasi nel mood di un concerto dei Pink Floyd. A fine concerto, un attimo di relax con i fans e il gruppo riparte sul suo furgone alla volta di un altro tour americano. Ritorneranno in Inghilterra a Gennaio 2012: spero che saremo in molti di più a celebrare queste piacevoli note nostalgiche di un’epoca ormai andata.

Myriam Bardino

Gli spazi impossibili di Sandro Perri

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 30 Dicembre 2011


Sandro Perri : “Impossible Spaces” (18/10/2011, Constellation Records/Goodfellas)
Dopo quattro anni di assenza dalle scene, ritorna Sandro Perri con “Impossible Spaces”, uno dei dischi più interessanti del 2011 che riconferma l’importanza di quest’artista nel panorama musicale canadese e internazionale. Già conosciuto dalla comunità di Toronto per gli altri suoi progetti Polmo Polpo e Glissandro 70 alla fine degli anni 90, Sandro Perri ha intrapreso in questi ultimi vent’anni dei percorsi musicali completamente diversi tra di loro, che lo hanno portato ad esplorare le terre musicali della musica elettronica, jazz, psichedelia, noise, classica, rock. Il suo nuovo disco “Impossible Spaces” si propone come un compendio elegante di tutte le sue conoscenze e stili musicali. Ascoltare questo disco e’ come seguire un’albero genealogico della musica con fasi e tempi tra loro diversi. Quando si pensa di aver percepito uno stile, un’associazione musicale con un’altro gruppo o artista ecco venir fuori un altro suono. A ogni successivo ascolto l’ascoltatore rimane sempre più affascinato da nuovi dettagli che portano alla scoperta di un album che esplora inediti virtuosi territori o spazi musicali ritenuti impossibili, come vuole lo stesso titolo dell’album “Impossible spaces”, Spazi Impossibili.
Un’assolo di chitarra e sassofono si susseguono nel brano iniziale Changes, dove durante i primi quattro minuti predomina un gioco di chitarra elettrica che s’intreccia alla soave voce di Sandro Perri che qui ricorda vagamente Marc Bolan. Gli ultimi quattro sono lasciati a una piccola jam session puramente strumentale di funk psichedelico. Changes certamente riferiti ai cambiamenti avvenuti nella crescita musicale che Sandro Perri ha sperimentato in questi anni ‘Could- could be changes... maybe we change’ (ci possono essere cambiamenti, forse noi cambiamo). Love&Light ricorda un po’ le atmosfere del connazionale Patrick Watson con Perri che flirta musicalmente con la bossa nova e la tropicalia degli anni 60. Segue How will I, dedicata alla riflessione personale e all’esperienza della separazione, del vuoto creato dalla prematura scomparsa di un suo amico e collaboratore morto di leucemia a soli trent’anni. Il testo recita: 'Hand in my hand, shoulder to shoulder / Today, it looks like love is bolder'(mano nella mano, spalla contro spalla. Sembra che oggi l’amore abbia preso un maggior rilievo). Anche qui la canzone si sviluppa su due parti, la prima dolcissima e la seconda cresce seguendo nuove tonalità e nuovi ritmi. Gli ultimi tre minuti che finiscono con un synth impazzito sono assolutamente mozzafiato, soprattutto se avete una predilezione per certe sonorità legate agli anni 70.
La leggiadra Futreactive Kid e la strumentale Futureactive Kid II si sviluppano attorno alla tematica dell’eterno confronto del valore dell’apertura verso il mondo esterno, verso gli altri da una parte e del bisogno di solitudine, introspezione e silenzio dall’altro. In Wolfman sentirete suggestioni sonore che variano da Neil Young a Bad Brains, non una facile accoppiata ma il risultato e’ incantevole. L’album si chiude con Impossible Spaces i cui testi sono stati scritti da Sandro Perri e il suo compianto amico Jordan Somers. Dopo un sentiero di dubbi e domande sul senso della vita, Sandro e Jordan incitano alla vita e all’esplorazione dei limiti del possibile tenendo stretto il bagaglio del passato. Delle lezioni e un disco preziosi da tenere stretti al cuore. La grafica dell’album e’ stata curata dalla stesso Sandro Perri. La copertina del cd e’ in carta riciclata al 100%. Disponibile anche in vinile dal peso di 180 grammi di cui la prima versione (ancora disponibile) include un poster colorato ed un coupon per il download gratuito del disco su MP3.

Wovenhand: "Black Of The Ink" Libro + CD (08/12/2011, Glitterhouse Records)

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 30 Dicembre 2011
Con alle spalle sei albums i Wovenhand ritornano con una preziosa sinopsi dei loro lavori precedenti: “Black on the Ink”, un EP accompagnato da un elegante libricino. Wovenhand e’ il progetto che ruota attorno alla figura emblematica di David Eugene Edwards già portavoce e leader musicale, aggiungerei, spirituale, dei 16 Horsepower. Nipote di un predicatore e cresciuto nel Colorado i suoi testi contengono (ed hanno sempre contenuto) diversi riferimenti biblici al bene e al male, al conflitto spirituale che esiste nell'intimo di un uomo, alla redenzione e anche alla storia sanguinosa del Colorado durante la quale migliaia di indiani furono uccisi nella folle corsa all’oro dell'uomo bianco. I testi recitati sono finalmente anche su carta in questo bellissimo libricino di 110 pagine con copertina rigida, contenente tutti i testi dei Wovenhand scritti a mano e illustrati dallo stesso David Eugene Edwards. Un fine lavoro editoriale come ancora pochi ne rimangono in quest’era tecnologica. Ad accompagnare il libretto anche un cd contente una canzone di ciascun album precedente ri-arrangiata in una nuova esclusiva versione.

Richard Buckner & Sacri Cuori - 14/11/2011, Social, London

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 16 Dicembre 2011

Richard Buckner & Sacri Cuori - Social - 14/11/2011
Un qualunque lunedì invernale londinese. Un freddo pungente e una certa strana quiete. In fondo a un dedalo di viuzze buie, non molto lontano dalle luci brillanti di natale delle arterie principali del centro, la luce soffusa di un locale. Entriamo. Un lungo corridoio con un bar e poche persone al bancone. Nel sottosuolo ci sono molte piu’ persone e un palco in fondo a un altro lungo corridoio. Tavoli di legno,
muri in cemento e enormi vetrate che salgono fino al marciapiede. Serata speciale stasera al Sociale, é la seconda tappa londinese sold out del poeta maledetto dell’alternative country: Richard Buckner uno dei piu’ rinomati cantautori americani, idolatrato da un seguito di fans aggueriti e venerato da numerosi musicisti americani come Bon Iver, Calexico, Marc Ribot, David Grubbs, Steve Shelley (Sonic Youth) che hanno collaborato con lui a piu’ riprese durante la sua carriera. Dapprima c'e’ stato un coinvolgimento in un’indagine a causa di omicidio, “vai via da New York per vivere una vita tranquilla e hai la sfortuna di scegliere la casa proprio nel punto dove la mafia fa sparire i corpi”, come Richard ci dira’ durante la serata. Poi il suo impianto va in panne durante la registrazione del disco. Trovando nuove fonti d’ispirazione, riprende a lavorare al disco un po’ piu’tardi e invita a collaborare per il suo album Steve Shelley, il batterista dei Sonic Youth e l’inventore della pedal steel guitar Buddy Cage. Le tracce sono finalmente pronte ma il computer contenente tutti i mix per il nuovo disco viene rubato. Richard impassibile, anche contro il fato avverso si rimette al lavoro realizzando finalmente le nove tracce per il suo nuovo disco “Our Blood” che vedrà la luce la scorsa estate, un gioiellino musicale. Non soltanto Richard Buckner é un fine chitarrista ma anche un talentuoso scrittore che riesce a creare della poesia e a vedere speranza anche sull’orlo del baratro, quando tutti gli altri “hanno abbandonato la barca”. Una rabbia latente alla quale aggrapparsi per sentirsi ancora vivi quando il destino ci volta le spalle. Per questo tour Europeo, Richard Buckner si fa accompagnare dagli italiani Sacri Cuori che aprono anche i suoi concerti. Una band che riesce a miscelare con delicatezza folk, blues e psichedelica. Avevano già esordito un annetto fa con il prezioso “Douglas and Dawn” registrato tra Tucson e Bristol con la collaborazione tra gli altri di Calexico, Howe Gelb, James Chance, Marc Ribot e John Parish. Dopo questo tour saranno in studio con Dan Stuart (ex Green on Red) e Hugo Race. Stasera, piu’ che un concerto, sembra di stare in un salotto tra amici, Richard racconta al pubblico aneddoti della sua gioventu’: episodi di vita vissuta tra amori e motociclette che ricorda con lieve nostalgia. Assaporiamo tutti gli istanti di questa scaletta che s’incentra per meta’ sull’ultimo disco “Our Blood” e per meta’ sulla sua discografica precedente. I Sacri Cuori si rivelano essere un’ottima band di supporto, aggiungono e ricamano musicalmente attorno alla poesia di Richard Buckner.
Richard Buckner & Sacri Cuori - Social - 14/11/2011
Al Social, rimaniamo tutti ipnotizzati da questo menestrello americano che si mette a nudo davanti a noi, “sono una persona semplice e diretta e non mi piace fingere” ci aveva detto prima del concerto. E si continua con pezzi come Ed’s song dal suo omonimo cd e Gauzzy Dress dal suo primo album “Bloomed” del 94. Alcuni di noi che hanno seguito Buckner da tanto tempo vorrebbero che scavasse ancor di piu’ nella sua vecchia discografia ma per lui, che guarda al futuro, le vecchie canzoni appartengono al passato, “un po’ come andare a rileggere i vecchi diari mi imbarazza”. Il concerto, dai tratti onirici, si chiude con la splendida “A chance counsel”. Gli animi si commuovono, gli occhi luccicano. Per il bis, Richard ritornera’ sulla scena da solo con la sua chitarra acustica per una cover di Candy-O dei Cars. Usciamo dal Social ancora permeati dalla delicatezza delle note di questa magica serata.

Italians do it better

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 16 Dicembre 2011

“Thee Piatcions” (19 novembre 2011, 93 Feet East, London)
Thee Piatcions - 93 Feet East - London - 19/11/2011
Terra di confine quella di Domodossola, di dove i Thee Piatcions sono originari. Lo scorso settembre hanno realizzato il loro cd d’esordio “Blame the Parents” che ha avuto delle critiche positive in tutto il circuito indipendente italiano ed estero. Un album tra la psichedelia e lo shoegaze, solo come le bands dl terzo millennio sanno mixare. Il disco e’ stato prodotto da James Aparicio
che ha gia’ lavorato con Goldfrapp, Nick Cave, Mogwai e recentemente con Liars e Spiritualized.Per questo progetto i Piatcions, sono stati affiancati da Robert Toher degli Apse alla chitarra e alla voce che li segue pure in questo tour europeo. I Piatcions non sono nuovi alle scene europee ma questa volta sono rafforzati dal repertorio del nuovo disco. Questo tour dopo l’Italia li porterà nella Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Croazia e Inghilterra dove hanno previsto quattro date. I Piatcions hanno raccolto molte critiche positive nell’ambiente underground inglese e non c’e’ da stupirsi che questa sera, prima delle due date a Londra, ci sia una grande riscontro del pubblico del 93 Feet East. Dal vivo, non c’e’ che dire: spaccano: un energia dirompente, le due chitarre e batteria irrefrenabili e un basso pesantemente rabbioso. Un muro di feedbacks, riverberi e chitarre a tutto volume. La risposta da parte del pubblico alimenta l’energia della scena: mentre Robert Toher urla con rabbia contorcendosi sul suo microfono a metà tra Anton Newcomb e Nic Offer, il bassista Dave Cocks si lancia suonando tra la folla, e tutta la sala in delirio inizia a ballare senza sosta. Il concerto finisce tra uno scroscio d’applausi. Piccoli italiani crescono all’estero.

Thee Piatcions - 93 Feet East - London - 19/11/2011

Halloween garage punk con Gravedigger V e Fuzztones

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 15 Dicembre 2011

“Fuzz-O-Ween Ball: The Higher State, Thee Gravemen, Loveland, Gravedigger V, Fuzztones” (28 ottobre 2011, Dome, London)

Quale miglior modo di celebrare il lungo week-end di Halloween che un concerto degli indiscussi re del garage rock: Gravedigger V e Fuzztones. Il concerto si tiene al Dome, una vecchia balera al piano di sopra di un pub irlandese. Ci saranno forse sulle duecento persone in questo locale a nord di Londra, ma e’ comprensibile visto che questa sera ci sono altri grossi concerti e festivita’ in onore di Halloween sparse per la metropoli. Un pubblico maturo per i Fuzztones e Gravedigger V che divennero una leggenda negli anni ‘80 presentandosi come portavoce di quell’ondata di revival garage rock degli anni‘60, la matrice del punk rock. Uno stile musicale che nonostante l’impatto nella scena indipendente in Europea, in Inghilterra non ha mai avuto un gran seguito fino agli anni 2000, quando gli Hives, Strokes e White Stripes mediarono il fenomeno a livello mondiale. Ma il revival del garage rock degli anni 80 aveva anche un lato morboso e tenebroso che mancavano a questi nuovi supergruppi.
Thee Gravedigger V - Dome - London - 28/10/2011
Dopo aver perso i The Higher State e Thee Gravemen, arrivo al Dome quando la pantera Lana e i suoi Loveland sono immersi nelle loro piacevoli atmosfere Doorsiane sul palco. Attorno a me loschi individui mascherati da zombie e da fantasmi e donne stupende in tutine leopardate o in minigonne ascellari. A seguire i tanto attesi Gravedigger V con il loro fantomatico leader Leighton Koizumi. Il gruppo e’ diventato una leggenda tra gli appassionati del garage rock. Uno di quei gruppi tanto talentuosi quanto sfortunati. “All Black and Hairy” fu l’unico disco pubblicato per la Voxx Records nel 1984, prima del loro scioglimento. Da lì voci circolarono sulla prematura scomparsa del cantante che in realta’ era “soltanto” alle prese con problemi giudiziari legati allo spaccio di stupefacenti e rapimenti. Stasera, dopo aver purgato le sue pene, Leighton Kiozumi e’ piu’ che vivo e vegeto. Indubbiamente uno di quegli animali da palcoscenico da far impallidire un qualsiasi Mick Jagger che sia. Aguzziamo la vista e alla chitarra Vox Phantom vediamo anche una nostra vecchia conoscenza pugliese: Moon Jelly. A causa di problemi con il soundcheck, il concerto inizia tremendamente in ritardo, ma inperterriti i Gravedigger V incalzano subito con la ritmica trascinante di No Good Woman e Leighton inizia a scatenarsi. Si continua a scavare tra le vecchie tracce polverose di “All Black and Hairy”, ed ecco She’s gone e Night of the Phantom. I problemi tecnici prendono il sopravvento. Il Vox Phantom di Moon Jelly rimane ammutolito assieme alla chitarra ritmica ma l’imperturbabile Leighton Kiozumi continua il suo show carico di energia riassicurando il pubblico “it’s only garage punk baby. Get me a tequila”. Al diavolo il suono, siamo qui solo per dirvertirci. Ma un paio di minuti dopo, parte anche il suo microfono e allora Leighton inizia uno spogliarello per intrattenere il suo pubblico seguito da Moon Jelly che inizia a inveire contro il tecnico del suono e contro gli amplificatori.
Thee Gravedigger V - Dome - London - 28/10/2011
Ma e’ solo “garage punk” e Hiro Amamiya imbastisce un solo di batteria. Leighton Koizumi continua a fare un po’ di show prima di rendersi conto che non puo’ piu’ far nulla se non abbandonare il palco e lasciare spazio ai Fuzztones. L’unica band di garage rock revival ad aver firmato un contratto con una major durante gli anni 80, major che rovinera’ anche la carriera dei Fuzztones con l’uscita del disco più mediocre del gruppo: “In Heat” nel 1989. Purtroppo la produzione patinata della major aveva rovinato il suono grezzo e primitivo per il quale i Fuzztones sono conosciuti in tutto il mondo. E nel 2009, con in mano le registrazioni originali hanno fatto uscire una nuova versione di “In Heat” mixata, prodotta e curata dagli stessi Fuzztones per la Sin Records di Protrudi, con il titolo di “Raw Heat, The "In Heat" Demos"”. Se vi capita ascoltate le due versioni e capirete fin dove le major possano arrivare. L'italiana Go Down Records l'ha da poco ristampata col titolo "Raw Heat, The Real sound of "In Heat"". I Fuzztones mancano dalle scene inglesi da qualche anno. Questa tappa londinese e’organizzata sia per la presentazione di “Raw Heat” che del loro nuovo disco “Preaching to the Perverted”. Dopo la débacle dei Gravedigger V si e’ fatto gia’ tardi e molte persone lasciano la sala convinte che i problemi tecnici non si sarebbero risolti. Ma, sorpresa, dopo una quarantina di minuti ecco Mr Protrudi salire in scena accompagnato da Lenny Slivar alla chitarra, Lana Loveland alle tastiere, Fez Wrecker al basso e Rob Louwers alla batteria. Rudi si presenta sul palco come un personaggio venuto
The Fuzztones- Dome - London - 28/10/2011
 dall’oltretomba, con un cappello da becchino, una mantella e uno scettro sormontato da una testa mozzata di una bambola. Il bianco con cui il gruppo si e’ truccato, comincia a colare solo dopo due pezzi. Un set di classe, garage rock allo stato puro. Il pubblico rimane un po’ basito come capita in molti concerti inglesi, forse a quest’ora gia’ troppo ubriaco ma pian piano quasi per incanto i corpi iniziano a muoversi e a perdersi in danze selvagge. I Fuzztones rimangono un po’ sorpresi dalla strana e quieta atmosfera, sembrano un po’ estraniati. Generalmente in Europa i Fuzztones riempiono le sale e il pubblico letteralmente impazzisce per loro, ma stasera manca l’alchimia tra loro e il pubblico. Durante i pezzi diabeticamente romantici come solo Rudi Protrudi sa interpretare le coppie si lasciano andare a danze lascive sotto il palco. Dopo un’oretta e mezza il gruppo lascia il palco per ritornare per il bis. E’ il compleanno di Fez Wrecker e Rudi Protrudi invita Leighton Kiozumi con lui sul palco per cantare assieme buon compleanno: attaccano con gli altri Fuzztones, il classico di Screaming Lord Sutch Jack the Ripper. La vista di Leighton e Rudi riuniti sul palco mi ha letteralmente commosso ma a questo punto si e’ fatto molto tardi. Leighton lascia la scena ai Fuzztones e a Rudi Protrudi che, come al suo solito, inizia a flirtare pesantemente con le lascive ragazze sotto il palco che hanno sguardi e pensieri solo per lui. It’s only garage punk baby, only garage punk.

The Fuzztones- Dome - London - 28/10/2011



Josh Rouse and the Long Vacations: “Josh Rouse and the Long Vacations” (28/09/2011, Bedroom Classics)

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 3 Dicembre 2011

Un album da ascoltare ripensando con delicata nostalgia all’estate trascorsa, con negli occhi le immagini di quei tramonti mozzafiato che la natura ci regalava mentre ritornavamo a casa ancora inebriati dal profumo del mare. Ed e’ proprio quella sensazione di freschezza e leggerezza, legato ai ricordi di una vacanza al mare, che Josh Rouse vuole farci provare in questo ultimo album, qui accompagnato dai suoi Long Vacations. Josh Rouse e’ uno di quei cantanti che durante la sua carriera ha spaziato dal cantautorato degli anni 70 al pop/rock. Trasferitosi in Spagna, dal quarto album in poi si e’ immerso in un mix di soft rock con sapori di bossa nova e dixieland. L’album omonimo sulla sua etichetta personale Bedroom Classics: “Josh Rouse and the Long Vacations” riecheggia le atmosfere dei Kinks di Sunny afternoon e Waterloo Sunset ma anche Girls of Ipanema di Antonio Carlos Jobim e la piu’ recente Better Together di Jack Johson. Un banjo, in apertura dell’album, ci accompagna lungo la solare Diggin in the Sand e la soave e dolce Movin On, che da quello che si legge sul suo sito, dovrebbe dare il sapore a tutto il disco. Fine Fine e’ prettamente bossa nova mentre To The Clock and the City scivola su un’interessante alternanza di ritmi; un malinconico piano accompagna la voce di Josh Rouse in Bluebird St. Lazy Days with Josephine, che su un tono prettamente dixieland racconta dei momenti estivi passati con la propria amata all’ombra di enormi pini in riva al mare. Ci svegliamo dai nostri ricordi con un battito di mani, il toque de palmas del flamenco che e’ cosi caro a Josh Rouse in Oh Look What the Sun did, dove si parla di quelle pigre mattinate estive passate ad osservare i colori del cielo. Segue My friend all’insegna di un soft jazz da pianobar, mentre il disco si chiude con la lieve e dolce Disguise, che pare rievocare i giochi degli innamorati durante i caldi e lascivi pomeriggi estivi. Non di certo un disco che vi rivoluzionerà l’esistenza, ma se trovate che l’inverno sia troppo lungo e avete bisogno di un raggio di sole musicale “Josh Rouse and the Long Vacations” e’ certamente un disco che vi trasmetterà un po’ del calore cercato.

Live Pearl Jam - Sorpasso, Milano - 18 Febbraio 1992

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 8 Dicembre 2011
Pearl Jam - Sorpasso, Milano - 18/02/1992
Del potenziale dei Pearl Jam anche in Italia se ne erano accorti in molti, quando vennero per la prima volta a suonare in un club di Milano in via Principe Eugenio: Il Sorpasso. Cosa sia diventato il club non saprei, forse chiuse qualche mese più tardi “Ten” era uscito solo da sei mesi in Europa: il seminterrato del Sorpasso poteva accogliere sì e no un centinaio di persone ma quella sera, stipati, eravamo almeno in trecento. Erano gli anni in cui si fumava ancora nei locali e c’era una totale mancanza di ventilazione e d’ossigeno. Anche se fuori era una fredda giornata di Febbraio la temperatura nel corso della serata divenne tropicale. Mi sembra di ricordare che il concerto fosse gratuito, uno showcase in promozione dell’album e mai gli organizzatori si sarebbero aspettati una calca simile. In molti rimasero per ore a fare la coda fuori dal locale, nella speranza di poter entrare. Nonostante un mal di gola di Eddie Vedder che rischiò di far saltare il concerto, i Pearl Jam, quella sera esplosero sul piccolo palco del Sorpasso quasi sommerso dalla folla.
Pearl Jam - Sorpasso, Milano - 18/02/1992
Release fu la canzone d’apertura e già dalle prime note fu chiaro che i Pearl Jam sarebbero entrati nella storia della musica. Dal secondo pezzo Even Flow, ci si rese conto dell’andazzo della serata. Nonostante l’ammasso di gente, il pubblico creava delle pericolose onde umane e spingeva a più non posso in tutte le direzioni per soddisfare la sua sete di musica. “Attenzione amigos” ci esortava Eddie Vedder ma il pubblico imperterrito continuava a spingere. Dopo Once Eddie chiede ai fotografi di lasciare la sala, preoccupato per la situazione fisica nella quale si trovavano a lavorare. Non per questo il concerto rallenta i ritmi e i Pearl Jam continuano ad estrarre foga e fuoco dai loro strumenti. Dopo State of love and trust (allora solo un demo), la tanto attesa Alive. Eddie Vedder sale sugli amplificatori ma si accorge che il soffitto e’ troppo basso e cerca di farsi spazio verso la folla. La pericolosa onda umana continua. Per calmare gli animi segue la stupenda Black subito incalzata da Deep e scusandosi con la folla della situazione un po’ troppo claustrofobica, Eddie Vedder ironicamente aggiunge che e’ la sala più grande nella quale abbiano mai suonato.
Pearl Jam - Sorpasso, Milano - 18/02/1992
Si continua con l’incisiva Why che non fa di certo acquietare il pubblico. La temperatura sale, gli amplificatori vacillano e alcuni dei presenti si offrono volontari per tenerli un po’ in equilibrio mentre si aspettano i rinforzi dell’addetto al palco. Dopo Porch, per calmare un po’ la situazione inaspettatamente i Pearl Jam eseguono una mini jam session di due minuti. Sul giro di basso funkeggiante di Jeff Ament, Eddie Vedder improvvisa “I want you all to be happy – Attenzione Attenzione Attenzione- I want you all to be happy” quasi in premonizione di quello che succederà qualche anno più tardi a Roskilde, dove la marea umana travolge e uccide nove persone durante la loro esibizione. Dopo la delicata Jeremy, Eddie chiede al pubblico se qualcuno conosce uno spazio più grande per finire il concerto, forse nel salotto di qualcuno. Eddie sceglie di ignorare l’invito del pubblico e i Pearl Jam incalzano subito con Breath e Scream (anche questa allora solo demo) e poi salutano il pubblico. Il richiamo per i bis non si fa attendere molto e ritornano sul palco con la loro corrosiva versione di I’ve got a feeling dei Beatles: poi Eddie Vedder intona Hunger Strike dei Temple of the Dog, diventata famosa per l’incredibile duetto con Chris Cornell. Impossibile per il pubblico resistere ad unirsi al coro ma dopo un minuto si attacca con Leash, un assaggio del prossimo album a venire “Vs.”. Uno degli amplificatori non regge più e vacilla sul pubblico ma nessuno e’ fortunatamente ferito. Riemergiamo dal Sorpasso con i nostri corpi ancora trasudanti vibrazioni, consapevoli di essere all’inizio di una delle pagine più belle del rock.

Pearl Jam - Sorpasso, Milano - 18/02/1992


Sorpasso, Milano, 18 Febbraio 1992: Pearl Jam set-list
- Even Flow
- Once
- State of Love and Trust
- Alive
- Why go
- Porch
- Improvisation "Attenzione"
- Jeremy
- Breath
- I've got a Feeling
- Hunger Strike
- Leash


Nel pomeriggio, durante il soundcheck, ebbi occasione di intervistare il bassista dei Pearl Jam, Jeff Ament.
Myriam Bardino- Sono curiosa di sapere come avete registrato “Ten”
Jeff Ament - Nel passato (ndr.qui si riferisce a progetti precedenti Green River e Mother Love Bone) quando registravamo dischi, sprecavamo un sacco di tempo per assicurarci che tutto fosse perfetto: il produttore, lo studio, il personale. Per “Ten” volevamo che il disco fosse istintivo e abbiamo deciso di registrarlo nello stesso studio dove registravamo i nostri demo e con lo stesso produttore: Rick Parashar. Sicuramente sono venute alcune difficoltà ma per noi era importante che il nostro primo disco fosse il più possibile vicino al nostro suono live perché era quello che volevamo comunicare in quel momento. Eravamo un gruppo, formato solo da tre mesi, avevamo venti pezzi e volevamo documentarli, metterli su un disco e partire in tour. Quando incideremo il nostro secondo disco, ci conosceremo un po’ di più e sicuramente avremo delle idee migliori, sarà molto meglio di questo. Oramai questo disco e’ stato pubblicato e sta andando meglio di quanto potessimo immaginare. Inoltre ci ha dato l’opportunità di suonare un po’ dappertutto e ne sono felice.

MB - Avete firmato per la Epic e venite anche da Seattle, c’e’ qualcosa che vi accomuna a gruppi come Screaming Trees, anche loro su Epic. Pensi ci siano similarità tra voi e il vecchio e nuovo suono di Seattle?
JA - Con gli Screaming Tree e Mindfunk (ndr. I Mindfunk erano di New York) che sono due gruppi sulla Epic che rispettiamo e ammiriamo, condividiamo lo stesso background.Anche loro hanno suonato in gruppi punk-rock come noi, ma penso che la loro direzione musicale sia un po’ diversa dalla nostra, soprattutto quella dei Midfunk che sono prettamente metal. Non so ancora spiegare il genere di gruppo che i Pearl Jam siano, penso che stiamo ancora cercando di esplorare il nostro suono e capire cosa sia. Riguardo alla scena di Seattle, ascolto piuttosto i nuovi gruppi, specialmente i Soundgarden. E’ stato per me interessante vederli crescere durante questi anni e raggiungere qualcosa di musicalmente spettacolare. Anche altri gruppi stanno facendo cose interessanti come Nirvana, Mudhoney, Poor Babies e altri, ma non passo tutto il mio tempo ad ascoltare i loro dischi, anche perché ascolto molto jazz e altre cose più heavy come i King’s X.

MB - Niente blues?
JA - Quello patito di blues e’ Mike il nostro chitarrista. Penso, anzi, sia quasi esclusivamente quello che ascolti.

MB - Pensi ci saranno altri episodi di Temple of the Dog, il vostro progetto con i Soundgarden?
JA - No, non ci sono progetti per un altro disco. “Temple of the Dog” e’ venuto fuori in un certo momento in cui trovammo l’ispirazione per fare un disco e suonare con altre persone: al momento penso che il nostro gruppo ci occuperà molto per i prossimi mesi ma, se fosse possibile, non mi dispiacerebbe trovarci tutti assieme per suonare

MB - Hai suonato con Green River, Mother Love Bone e adesso Pearl Jam. Che differenze hai trovato nei diversi gruppi?
JA - Ho trovato molte differenze. Con i Green River abbiamo imparato a suonare gli strumenti, quindi lo facemmo quasi per puro divertimento. Pagammo quasi tutto di tasca nostra: il disco e il tour. Alla fine Mark (ndr.si riferisce a Mark Arm che fonderà più tardi i Mudhoney) voleva fare delle cose diverse da noi e lasciammo il gruppo, avevamo portato avanti il progetto fin dove potevamo. Subito dopo ci furono i Mother Love Bone e nel gruppo c’erano definitivamente delle cose che non andavano nel senso giusto, non c’era molta alchimia tra di noi: anche se pensavamo che fosse incredibile suonare in gruppo dove tutti avevano delle forti e diverse personalità questo aspetto giocò anche in nostro sfavore perché c’erano molti problemi legati soprattutto a dei problemi di ego. Quindi anche prima della morte di Andy (ndr. Andy Wood, il cantate dei Mother Love Bone morto per overdose a 24 anni e prima dell’uscita del loro primo disco “Apple”) le cose non andavano per il verso giusto: in quel momento era il gruppo in cui avevo voglia di suonare ed esplorare la musica, anche se il peso dei problemi mi rendeva a volte difficile trovare l’energia necessaria. D’altra parte, tutte queste esperienze ci fecero capire quello che veramente volevamo, come farlo, come andare in tour e registrare dei dischi, e anche capire tutte le altre dinamiche che si creano all’interno di un gruppo.

MB - Molti critici vi hanno indicato come la “next big thing” dopo il successo dei Nirvana. Cosa ne pensi?
JA - Beh c’e’ sicuramente qualcosa da dire sul numero di dischi che stiamo vendendo e il tour sta andando molto bene ma, per questo, non ci montiamo la testa. Penso che continueremo a fare dischi e a fare concerti e per quel che riguarda la stampa, effettivamente si sta facendo molto rumore su questo paragone: Nirvana – Pearl Jam. Ma e’ ridicolo perché facciamo delle cose diverse e ci vogliono solo accomunare perché veniamo dalla stessa area.

MB - Un po’ come se vi accomunassero a Jimi Hendrix
JA - Esattamente

MB - Come avete filmato il video di Alive?
JA - E’ stato girato a Seattle in un club (ndr. il club RKCNDY), con il pubblico composto per lo più da nostri amici e moltissimi altri fans. Quello che volevamo era solo un video del nostro “live”. Anche l’audio del video e’ un po’ come la nostra versione dal vivo. Per il nostro primo video volevamo che fosse semplice come un concerto con la partecipazione del pubblico. E ha funzionato abbastanza bene. E’molto naturale in un periodo in cui la musica che ci circonda e’ un po’ falsa.

MB - Parlando dei concerti dal vivo, come sta andando il vostro primo tour in Europa?
JA - E’ molto strano, il pubblico e le reazioni sono diverse in ogni paese. Siamo stati in Scandinavia per tre giorni, poi a Amsterdam. Parigi, Madrid e adesso qui . E’ tutto cosi diverso nel lasso di poco tempo.

MB - Cosa ti aspetti da stasera?
JA - Mah, le uniche informazioni che ho sul pubblico italiano vengono dai Soundgarden quando vennero qui in tour

MB - Ah sì, il tour sfortunato
JA - In che senso sfortunato?

MB - Beh il batterista s’e’ beccato l’appendicite
JA - Ah sì, pensavano fosse l’appendicite ma in realtà si trattò di un’intossicazione alimentare ma prima di quell’episodio mi hanno detto che hanno avuto una gran bella accoglienza dal pubblico italiano. Generalmente non avevamo molte aspettative sul tour Europeo ma finora la risposta del pubblico e’ stata così intensa che per noi e’ veramente una gran ricompensa.

MB - Quali sono i vostri progetti futuri?
JA - Finiremo il tour a metà Marzo, poi una settimana di pausa a casa per poi iniziare un tour di due mesi e mezzo negli Stati Uniti. Dopo un’altra settimana di pausa, verremo di nuovo qui in Europa per dei festival e poi il tour in Australia, Lollapalooza in America e poi penso saremo nel periodo di Agosto/Settembre e avremo abbastanza materiale per un’altro disco.

MB - Pesante la vita del musicista, vero?
JA -Certe volte ti senti stanco ma in confronto a quello che stiamo vivendo, ne vale veramente la pena. Tutto sta andando così bene, il disco, il tour, l’accoglienza. Quindi se veramente mi dovessi sedere un attimo e analizzare la situazione, penso che non potrei chiedere qualcosa di più. Anzi sì, mi piacerebbe avere più tempo per visitare meglio le città o i paesi nei quali siamo in tour. Per esempio sono in Italia ma non avrò tempo per visitare né Roma né Venezia ma ritornerò presto.

E i Pearl Jam tornarono in Italia e suonarono allo Stadio Flaminio a Roma e all’arena di Verona: il resto e’ storia.



Pearl Jam: “PJ 20” - (DVD/Blu-Ray + 2 CD - 25/10/ 2011, Columbia)

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 3 Dicembre 2011


Per celebrare il ventennale dell’uscita del loro primo disco “Ten”, pubblicato il 27 Agosto 1991, i Pearl Jam hanno realizzato, in collaborazione con il regista Cameron Crowe (Vanilla Sky, Johnny MCGuire), un documentario sulla loro carriera. “PJ 20” e’ un efficace e intima prospettiva di uno dei gruppi più importanti del rock dell’ultimo ventennio. Due ore di abile montaggio e minuziosa selezione tra più di 1200 ore di sequenze
rare e inedite e più di 24 ore di interviste e concerti. Si inizia con Jeff Ament e Steve Gossard giovanissimi alle prese con il loro gruppo Mother Love Bone nella scena di Seattle di quegli anni, l’improvvisa morte per overdose del loro cantante Andrew Wood, l’indecisione musicale e poi l’incontro con Eddie Vedder e la nascita del loro nuovo gruppo Pearl Jam. Il loro primo disco “Ten” che vendette 13 milioni di copie e l’ascesa al successo mondiale. Il difficile percorso dettato da molte delle loro scelte, la forza del loro rifiuto di far parte dell’ondata mainstream nei quale tutti cercavano di spingerli e farli soffocare come successe ai Nirvana. Vediamo anche come sono diventati i Pearl Jam di oggi, le riflessioni sulla loro storia, dopo aver venduto più di 60 milioni di dischi. Un documentario consigliato anche se non siete fanatici dei Pearl Jam. “PJ20” vi darà uno spaccato sulla scena di Seattle dei primi anni 90 ma anche un esame approfondito del meccanismo perverso dell’industria discografica e di come un gruppo di giovani musicisti riesca a conquistare il successo e a rimanere completamente lucido. Il DVD e’ anche accompagnato da un doppio cd che può essere comprato separatamente o in un boxset. Nel doppio cd, un totale di 29 tracce tra live, demo, covers dei Mother Love Bone, un duetto con Neil Young e vari inediti tra cui anche alcuni dei Temple of the Dogs (il progetto con Chris Cornell dei Soundgarden).

Tuesday, April 03, 2012

Balaclavas - "Snake People" - Dull Knife - 18/10/2011

Pubblicato su distorsioni-it.blogspot.com 3 Dicembre 2011 


Tra i miei “amici” di Facebook, c’e’ una ragazza svizzera, GB. Non l’ho mai incontrata ma virtualmente abbiamo molto in comune. Tra le varie cose, GB sulla sua bacheca, continua a pubblicare dei video di gruppi tanto sbalorditivi quanto oscuri e semi sconosciuti. All’incirca un anno fa, grazie ai video di GB, venni a conoscenza dei Balaclavas e del loro sorprendete album di esordio “Roman Holidays”
una miscela di post punk esplosivo. A distanza di un solo anno, i Balaclavas ritornano con un nuovo album “Snake People”. Mentre il precedente “Roman Holidays” ti investiva come un grido di energia deflagrante, con “Snake People”, i Balaclavas sembrano incanalare la loro energia verso una profonda introversione. Ma la loro rabbia musicale e’ troppo dirompente per essere interiorizzata e, lasciata senza alcun controllo, rifluisce all’esterno attraverso tortuosi canali che aggiungono al suono una sensazione di lancinante sofferenza psico-fisica. Da tempo sto cercando più informazioni sui Balaclavas, anche GB mi ha confermato che su questo gruppo originario di Houston aleggia il più profondo mistero. Un mistero che ben si addice all’aver ereditato il lato piu’ oscuro del post punk, new wave e kraut rock. “Snake People” inizia conLegs Control un brano compulsivo a cavallo tra PIL e Joy Division, ma il suono della tastiera irrefrenabile e godibilmente danzereccio gli conferisce quel gusto terribilmente contemporaneo. Segue Wrong Side of the Bars, un ibrido irresistibile di goth-tex-mex tra Wall of Vodoo e Living in Texas (gruppo francese tanto leggendario quanto oscuro). Per Shit Meridian e Snake the People la sessione ritmica rievoca i fantasmi di David J e Kevin Haskins dei tempi più tetri dei Bauhaus, mentre gli altri componenti dei Balaclavas sembrano piuttosto inseguire le linee di pensiero dei Can, Pere Ubu. Il tutto condito di una gran bella dose di Big Black. Down and Loose e’ assolutamente irresistibile, uno di quei pezzi che ti fa perdere il controllo delle gambe. Se per la seguente Hard Pose si naviga tra le terre di Cabaret Voltaire e Siouxsie and the Banshees ci si rituffa negli abissi del kraut-rock conStandard Channels e con l’ultimo brano Find Out Yourself. I Balaclavas di Houston non aspettano altro che essere scoperti dalle vostre orecchie. Grazie GB per avermeli fatti scoprire.