Friday, October 15, 2010

1-2-3-4 Shoreditch Festival - 24th July - London

L'azzurro acrillico del cielo e l'odore dell'erba essicata dal sole.
Questo e' quello che mi viene in mente quando ripenso al festival 1-2-3-4 della scorsa estate nel parco di Shoreditch, un quartiere all'est di Londra.
A mezzogiorno, ci sono venti persone davanti al palco centrale: "1234 Converse".
Converse? Si l'evento e' sponsorizzato da Converse e da Jagermseister. Non possiedo un paio di "chucks" e non bevo Jagermeister. Perche'? Non so perche',sono fatti miei e nemmeno Raz Deagan riusci' a convincermi negli anni '90.
Sul palco un delirio musicale regalato dagli Action Beat, un collettivo inglese d'improvvisazione punk-noise. Tre batterie, due bassi e due chitarre. Il festival inizia nel migliore dei modi.Dalle due del pomeriggio alle quattro, devo essermi distratta e improvvisamente arrivano gli S.C.U.M. L'entusiasmo delle giovani ragazze che mi stanno accanto e' sicuramente scaturito dal bel tenebroso Thomas Cohen, un incrocio tra Brian Moloko e Nick Cave. Anche se musicalmente mi fanno venire in mente in Placebo, c'e' qualcosa di insanamente piacevole in questo gruppo.E'l'ora delle Dum Dum Girls, una delle ultime rivelazioni Sub Pop che oltre ad avere sei gambe notevoli, e' un gruppo che ha trovato un equilibrio interessante tra le Bangles e Siouxsie and the Banshees. Il sole mi sta dando alla testa.Dal palco Converse, mi sposto, al palco Rough Trade dove i Comanechi offrono un set esplosivo,molto punk-nosie. Duo composto dalla fenomenale giapponese Akiko (voce e batteria)e dal chitarrista Simon Petrovich. In questa occasione sono coadiuvati da un altro batterista. Anche Jim Sclavunos, in mezzo al pubblico, accanto a noi, sembra aprezzare il set e si gratta piu' volte la barba in segno di consenso. Si passa ora al tendone Artrocker dove si esibiscono un gruppo di donnine che convincono solo per le loro vesti trasparenti e succinte: le Trush Metal. Musicalmente e femministicamente da dimenticare.Passo davanti allo stage Converse mentre Peter Hook ripropone pietosamente "Unknown Pleasure" davanti a un pubblico in delirio, per me senza motivo. L'idea mi fa ribrezzo e appena incalza "Love will tear us apart", un brivido mi percorre la schiena e trovo rifugio dai Toes che mi riconfortano con il loro ska intramontabile. Mi pento ancora di non aver visto i Rolo Tomassi, ma la fila era lunga, il caldo insopportabile e ho preferito rinfrescarmi dalle Vivian Girls con il loro pop leggero e delicato per una mezzoretta.
Infatti dalle 8.30pm alle 9pm sono davanti al palco Converse dove si esibisce il supergruppo dei Silver Machine: Bobbie Gillespie, Gene Matlock e Zak Starkey (figlio di Ringo Starr)con delle cover strepitose dei classici del rock tra cui "I want you" dei Troogs, "Psychotic Reaction" dei Count Five e per chiudere in bellezza con "Action Woman" dei Litter con un delirio generale del pubblico ma soprattutto di garage-punk fans con gli occhi e le orecchie fuori dalle orbite. Solo dieci minuti dai Veronica Falls che non mi convincono per niente e
dopo avere diviso una pizza con i miei vicini mi butto di nuovo sul palco centrale dove ha gia' iniziato il gruppo di hardcore punk canadese, Fucked Up. Il cantante Pink Eyes, non esita a fare stage diving, a spogliarsi e ritrovarsi in mutande dopo solamente due pezzi. Energia e sana pazzia come non se ne vedeva da tempo. La sera sta calando. Dopo nove ore di musica,sono allo strenuo delle forze.Evito i These New Puritans che dovranno abbandonare il loro set per problemi tecnici e mi dirigo verso il palco Artrocker per assistere a quella che sara'la rivelazione del festival:Bo Ningen. Un gruppo di minuti capelloni giapponesi che hanno trovato l'annello musicale mancante tra Black Sabbath e Sonic Youth, lo show e'eccezionale.
I corpi dei musicisti che si contorciono sugli strumenti, riti satanico-musicale e i volti dei presenti in completa estasi come Faris Badwan degli Horrors, in fondo alla sala. Non soprende neanche un po' che la rivista Mojo abbia recentemente scritto “Bo Ninge,quite probably the most exciting young band in London right now".Ancora vacillante da questa assurda esperienza noise-psichedelica mi dirigo verso le giostre per scambiare le ultimi opinioni sul festival con i pochi superstiti. E' notte, i cancelli del parco si chiudono ma la notte degli aftershows del festival e' solo all'inizio.

Tuesday, August 24, 2010

"John Wynne" - Newspeak - British Art Now - Saatchi Gallery - London

Andare all’inaugurazione di gallerie d’arte a Londra e’ abbastanza semplice e la maggior parte delle volte non c’e’ selezione all’entrata. Ci sono 4 motivi per cui un'inaugurazione e' un evento sociale abbanstanza piacevole: n.1)99% delle volte puoi incontrare gli artisti e chiedere spiegazioni dirette dei loro lavori, sempre che non abbiano abusato del punto n.3) – n.2) la galleria e’ aperta fino a tardi e si puo’ andare dopo una giornata di lavoro – n.3) ci sono quasi sempre delle bevande alcoliche offerte dalla galleria – n.4) e’ un'occasione per passsare una serata piacevole con degli amici e si puo’ chiaccherare a voce alta davanti alle opere (o non) d’arte. Una di queste sere mi ritrovavo con Franca all’inaugurazione della nuova collezione Saatchi: “Newspeak: British Art Now”. Non vedevo Franca da tanto tempo, per cui abbiamo gentilmente preso il nostro bicchierino di champagne, diciamo moscato.. e abbiamo aspettato che la gente sfollasse raccontandoci un po’ le ultime viccende di vita vissuta. Perse nei nostri discorsi, non ci siamo rese conto del tempo che passava e ci restavano solo 45 minuti per vedere qualche sala prima della chiusura della galleria. :“ok iniziamo da qui”..”uh interessante..ma cos’e’?” “quindi la guida dice manichino in cera di Madame Blavatsky in sospensione su due sedie. Madame Blavatasky..blah blah, fondatrice della societa’ teosofica, basata sul pratiche dell’occulto..”, “ma non dovrebbe essere al museo delle cere? o forse non e' importante come Beckham o Obama e l’hanno messa qui, non saprei..”, “e questa ghigliottina?”, “mah, dici che l’avranno usata per uccidere la Madame?”. Con queste profonde discussioni continuiamo di sala in sala, fino ad arrivare alla sala n.10 e :“wowww..ma quanti sono?”, “sono esattamente 300 speakers”. Penso di aver passato i restanti 30 minuti a assaporare questa installazione di John Wynne (no, non Wayne!). Installazione quindi per 300 speakers, una pianola e un aspiratore! E si, da tanto tempo che non vedevo un’installazione sonora a Londra. Una decina d’anni fa andavano molto alla moda ma di recente non se ne sono viste molte. Mi sono seduta in mezzo agli speakers ed e' stato fantastico. Ovviamente sia gli speakers, che l’aspiratore che la pianola sono azionati da un computer e non sono sincronizzati quindi il suono e’ destinato a non ripetersi. La parte che colpisce e' l’accumulo di speakers di tutte le forme e dimensioni e anche il leggero suono che possono emettere senza che trasmettino nessuna musica. Un leggero sibillo che ripetuto per 300 volte diventa un suono forte e chiaro. La seduta in mezzo agli speakrs mi chiedevo se non avessi sbagliato qualcosa, se non dovevo continuare a lavorare nel campo della musica e non c’e’ giorno in cui mi alzi e non sia la prima cosa che mi chieda.

"Maestria e eleganza" - Howe Gelb + Giant Sand + Kristin Hersh + A band of Gypsies - Barbican - London - 22/07/2010

Non capisco come mai in tutti questi anni non abbia mai visto i Giant Sand e/o Howe Gelb dal vivo. Sto cercando di riguardare le date dei vecchi tour e fare mente locale in quale luogo mi trovavo per non averci assistito. D’altra parte dovrei anche essere onesta e ammettere che ai Giant Sant ho sempre preferito i Calexico che sono uno dei miei gruppi preferiti in assoluto e che ho visto almeno una decina di volte dal vivo. Un mea culpa de prufundis, per non avere portato piu’ attenzione ai Giant Sand e ai progetti paralleli usciti dal capello di quel genio musicale che e’ Howe Gelb.
L’anno scorso fu la prima volta che vidi il sig. Gelb qui a Londra, all’ICA, per l’uscita di “Snow Angel”, documentario musicale sul suo progetto di collaborazione con un coro gospel candese. Non nego che presi il rischio di addormentarmi nonostante il sig.Gelb fosse seduto alle mie spalle. Nonostante il documentario fosse noioso con una pessima regia, mi dette da riflettere sulla profondita’ e sul suo talento e sulla sua incontestabile e inesauribile passione per la musica. Quasi dopo un anno Gelb ritorna con un nuovo progetto. Direzione Corboda in Spagna, una fresca collaborazione con un gruppo di flamenco “The band of gypsies” (e non gypsys come quella di Hendrix!). E quale occasione migliore di presentarla a Londra se non la celebrazione dei 25 anni dei Giant Sand al Barbican. Questa sera, trovo al Barbican una posizione ottimale, terza fila, altezza del palco, con qualche divanetto libero vicino a me. Gelb, non ha invitato tanti musicisti per celebrare i 25 anni, solo Kristin Hersh, ex-Throwing Muses che apre questa serata. Minuta con una pettinatura e un vestito semplice e un filo di perle al collo, con la sua chitarra e la sua strepitosa voce ha dimostrato, ad una sala non gremitissima, di avere grinta da rivendere le sue canzoni erano ancora di forte impatto. Dopo una mezz’oretta, Howe Gelb e i suoi Giant Sand salgono sul palco. Stasera scaveranno ben poco nel passato, i pezzi sono quasi tutti recenti e c’e’ anche qualche inedito. Ad accompagnare questo set, uno slideshow fotografico incentrato per lo piu’ su Howe Gelb: da giovane, con i figli con i nuovi musicisti che lo accompagnano nell’avventura dei Giant Sand, con i Snow Angel, con la banda dei gitani spagnoli. John Convertino e Joey Burns, spuntano sfuocati su una foto di una vecchia rivista tedesca, forse la prima copertina che i Giant Sand fecereo in Europa. E gli stessi Convertino e Burns sembrano i grandi assenti stasera, per questa celebrazione di un quarto di secolo di Giant Sand. Di certo i nuovi musicisti dei Giant Sand sono musicisti eccelsi e c’e’ una grande armonia tra loro anche se chi dirige le danze, e’ lui, l’uomo plurimusicista e multitalentuoso, il maestro Gelb, che si avvicenda dalla chitarra acustica, a quella elettrica al piano con una leggiadria da folletto. Ci regala anche in questo primo set (secondo, se contiamo Kristin Hersh) un’interpretazione incredibile di « Expiration day brani” del suo defunto amico Vic Chesnut. Fine primo tempo. Ci si sgranchisce le gambe fuori dalla sala, un drink o uno snack al bar e siamo di nuovo in sala. Giant Sand in scena che accompagnano in sottofondo Kristin Hersh che legge dei passaggi dalla sua autobiografia: Paradoxical Undressing; testi surreali, ironici e alquanto divertenti. Strana scelta per celebrare i 25 anni dei Giant Sand, lasciare tanto spazio a Madame Hersh, ma non bisogna cercare di capire quello che frulla per la testa di Howe Gelb. Dopo le letture, Howe Gelb rimane solo sul palco con Thoger T. Lund al controbasso e invita il gruppo dei musicisti gitani di Corboba a raggiungerli. Oh, il momento che aspettavo. Seduti in semicerchio, un perfetto set di flamenco spagnolo che si fonde con la classe e l’eleganza dell’indie rock che del Maestro Gelb. Un set increbibile che avrei volute continuasse per ore e ore ma dopo qualche pezzo ecco entrare il resto dei Giant Sand sul palco con Kristin Hersh. Applausi, standing ovation meritate. Spero che questo sia stato solo un assaggio e spero a presto con una piu’ lunga presentazione di questo suo nuovo incredibile progetto, preferibilmente senza documentario. Lunga vita a Howe Gelb!

Friday, August 06, 2010

Indimenticabile - Patrick Watson and the Wooden Arms - Tabernacle - London 05/07/10

Febbraio 2007, Parigi. A casa di Christelle, ho tra le mani un cd-promo che Jerome mi ha appena regalato: “Ma Fleure” dei Cinematic Orchestra. Il cd player segna: Track 4 “Music Box”. Non diciamo niente, ci basta uno sguardo per capire che quella voce che stiamo appena ascoltando per la prima volta, diventerà parte integrante delle nostre vite, dei nostri sogni, accanto ai nostri venerati Jeff Buckley e Bertrand Cantat. La traccia N.5 non ha ancora iniziato che balziamo sul pc per cercare più informazioni. “Patrick Watson, hai detto?”- “Si W-A-T-S-O-N, che dice?”-“Qui c’e’ scritto “Patrick Watson, cantante canadese paragonato a Rufus Wainwright, Nick Drake, Jeff Buckley, all’attivo due cd disponibili import” -“ beh si Jeff Buckley ci sta tutto. Come import? Peccato che sta meraviglia non arriverà in Europa”. Come avevo torto quella sera. Qualche mese più tardi Patrick Watson e il suo gruppo si aggiudicano il prestigioso premio Polaris canadese declassando i più noti Arcade Fire e a Settembre viene pubblicato finalmente, anche in Europa, “Close to Paradise”, uscito in Canada un anno prima. Disco di una notevole intensità con atmosfere prese da Nick Cave, Tom Waits, Yann Tiersen. Una varietà di strumenti che vanno da chitarra, violini, fisarmonica, pianoforte, megafono, campionamenti, batteria, banjo, palloncini e forchette varie (!) e arrangiamenti che flirtano con Debussy e Satie, si lo so non bisognerebbe disturbare i mostri sacri ma: ascoltare per credere. Nonostante il gruppo si affermi piano piano in Europa, non riesco che a vederli in concerto l’anno scorso alla Union Chapel. Un concerto incredibile, mozzafiato. Per questo, non ho indugiato a prendere i biglietti per il concerto del 5Luglio, al Tabernacle di Notting Hill. Un luogo suggestivo quanto la Union Chapel. Il Tabernacle è un’ex-chiesa evangelica del 1887, con la facciata curva, costruita in mattoni rossi non lontana da Portobello Road. Una meravigliosa costruzione di stile romanesco, ora adibito a centro culturale. Una sala non direi gremitissima con poco o meno trecento persone. Stranamente e’ stato un evento poco pubblicizzato. Sul palco, Patrick Watson e il suo incredibile gruppo di musicisti: i Wooden Arms. Le luci sono soffuse e sembra di assistere quasi a un rito religioso massonico per pochi iniziati. Stasera, ad accompagnarli anche una cantante femminile e un quartetto d’archi. Patrick è un gran chiaccherone, simpatico, scherza con la band ed e’ sempre pronto a intrattenere la folla con aneddoti divertenti durante tutto il concerto tra “Big Bird in a Small Cage”, “Wooden Arms”, “To Build A Home”. E in quello che ci sembra un’attimo, siamo trasportati verso la fine del primo set. Per il secondo set, l’abituale sorpresa. Il concerto formatto palco-pubblico, si trasforma in un evento musicale da strada. Patrick indossata l’armatura del suo albero di cinque megafoni in spalla, e seguito dai suoi musicisti con percussioni e chitarra acustica avanza tra il pubblico, come facevano i musicanti nelle piazze in altri tempi. Il mini corteo di musicisti si ferma al centro della sala, si crea un cerchio attorno a loro. Il gruppo è colto di sopresa quando i violini rispondono tra dalla mezzanina, anche loro nascosti in mezzo ai presenti. Il pubblico sorride, e sembriamo tutti accomunati dallo stesso spirito che si puo' creare durante un fuoco di campo. Patrick lascia il suo albero di microfoni, sale su un paio di gradini e intona “Man Under the Sea” con il ritornello seguito dal tutto il pubblico “Just me, the fish and the sea”, prima sottovoce e poi fortissimo. A fine concerto, le persone sembrano estremamente felici e sorridenti e iniziano tutti a parlare gli uni agli altri. Patrick sgattaiola fuori dai camerini e si ferma a fare fotografie e a scherzare con i fan. Simon Angell, il chitarrista, porta consiglio agli avventori del banchetto merce mentre Robbie Kuster, il fantasioso percussionista, ride rilassato con un paio d’amici nel giardino. Non vedo Mishka Kein,il bassista, sara’ per la prossima volta. Cosi', mentre il sole cala su Londra lascio questa simpatica confraternita. Mentre ruota ancora nella mia testa “Just gather round all our family round and scream a noise and leave the ground I was so happy there under, under the sea”, un senso di gioia e festa invade i miei sensi ancora per qualche ora preziosa.

Thursday, July 29, 2010

“The only one was a sweet talkin’ son of a preacher man” - Woven Hand - Bush Hall - 01/06/10

Durante il mese di Giugno, forse a causa dei mondiali di calcio, non ci sono stati molti concerti che abbiano attirato la mia attenzione, a Londra.
L’unico appuntamento imperdibile e’ stato quello dei Woven Hand, di David Eugene Edwards, il 1 Giugno scorso, al Bush Hall.
Ho scoperto David Eugene Edwards, casualmente, solo quattro anni fa, mea culpa.
Sono comunque andata a riscoprire la discografia dei 16 Horsepower che non hanno avuto un gran successo in Inghilterra ma, stranamente, un enorme seguito in Olanda, dove sono arrivati anche ai numero uno delle classifiche.
Il singolo che fece scaturire il mio interesse, fu una loro cover di “The partisan” di Leonard Cohen del 1998, in collaborazione con i miei venerati Noir Desir.
Una di quelle cover che risultano essere migliori dell’orginale, da brivido.
Alla mia personale "equazione Woven Hand" al quale ero legata via i Noir Desir, quest'anno, si e’ aggiunto anche Josh Pearson, che ha aperto il loro concerto a Parigi. Inutile spiegare, ma a volte nella vita, ci sono delle sottili linee che s’intrecciano e giocano con il tuo destino.
Ma veniamo ai Woven Hand e al loro leader spirituale David Eugene Edwards.
David Eugene come Josh Pearson e’ il figlio di un predicatore. Cresciuto in un'ambiente mistico e religioso nel Colorado, che si trova a meta’ strada tra la Bibble Belt e lo Utah, dove vivono piu' di mezzo milione di mormoni, il giovane David Eugene non potra' che portare queste influenze nella sua carriera di musicista. Nei testi musicali sia dei 16 Horsepower che dei Woven Hand, si trovano diversi riferimenti agli assi del bene e del male, alla redenzione e al conflitto spirituale ma anche alla testimonianza storica del Colorado, terra segnata dal sangue di migliaia di indiani durante la folle corsa all’oro. Dei testi profondi quinid, conditi da atmosfere musicali che evocano i Gun Club e i Bad Seeds di Nick Cave.
Stasera il giorno dopo dell’uscita del loro ottavo album “The Treshingfloor”, i Woven Hand sono di passaggio a Londra. Non faccio a tempo a vedere i Crippled Black Phoenix che i Wooven Hand sono gia' sul paclo. Basso, batteria, chitarra (+tastiere e congegni vari) e lui, il possente predicatore David Eugene con bombetta nera che si siede al lato del palco. E’ un concerto intenso. Mentre i tre musicisti tessono la base musicale, David Eugene tiene il ritmo con i suoi stivali per tutto il concerto e si dimena tra chitarra elettrica, acustica, mandolino e armonica a bocca. Dai suoi due microfoni, che usa per cambiare la voce come se venisse dall'oltretomba, esorta a stare lontani dai demoni del male e a cercare in noi la verita’ spirituale. Una strana calma s’instaura nella sala, come se ci fosse una nuvola soffocante sulle nostre teste. Siamo tutti paralizzati dalla presenza di Father David Eugene Edwards. Ci facciamo trasportare lungo tutta la discografia di questi otto anni: l’ononimo Wooven Hand, Consider the Birds, Mosaic...ma la maggior parte dei pezzi e' tratta dal loro stupendo "The Treshingfloor" e prima della fine del concerto, il temporale si scatena...e poi il silenzio. Mi sveglio dall’ipnosi in macchina. Faccio partire il motore. Fuori piove, mentre osservo il riverbero delle luci sull’autostrada, mi viene in mente il soliloquio di Jacob in “A prayer for the dying” di Stewart O’Nan: "'It's not right,' you say "Who are you angry with? "Not God "No? Who else is there? Is this the devil's work? "It must be, you think, but uncertainly". Bene o male, non so se sia, ma il verbo di David Eugene e' entrato definitvamente in me e ne sono ora una fervente addetta.

Tuesday, July 20, 2010

"La schiva diva" - Hope Sandoval and the Warm of Invention - 25/05/2010/Bush Hall/London

Hope Sandoval fa parte di quelle poche cantanti donne che sono rimaste integre alla loro musica e lontana dalle luci della ribalta. Venni in contatto dei dischi di Hope Sandoval con il progetto Mazzy Star, nato dalle ceneri del gruppo Opal e creazione di uno dei chitarristi più importanti della scena del Paisley Underground nonché fondatore dei Rain Parade (uno dei miei gruppi preferiti in assoluto): David Roback. L’ultimo disco dei Mazzy Star uscì nel 1996 e da allora Hope Sandoval si e’ data da fare partecipando a vari progetti paralleli tra cui “Hope Sandoval and the Warm of Invention” al quale collabora con Colm O’ Ciosoig batterista dei My Bloody Valentine, stasera di scena al Bush Hall di Londra. Una serata quindi imperdibile. “Stasera le fotografie non sono permesse durante il concerto”, gentilmente e’ ricordato sulle porte del Bush Hall, riflette l’idea del personaggio riservato di Hope Sandoval. Non me ne meraviglio. Il Bush Hall è un quadro perfetto, per questo genere di concerti: lampadari a goccia di cristallo, specchi d’epoca, e drappi rossi appesi ai muri. Con un ritardo degno di una diva sale sul palco alle dieci assieme a Colm e altri quattro musicisti. Il suono è a dir poco fracassante: due chitarre, un basso, una tastiera e la batteria di Colm per questa piccola sala. La voce di Hope Sandoval non si riesce nemmeno a sentire e si perde in questo marasma. C’e’ qualcosa che non funziona e si sente. Hope Sandoval e un po’ imbarazzata, sbaglia l’entrata con l’armonica a bocca e lancia continuamente degli sguardi severi, ai suoi musicisti, degni dei raggi fotonici di Mazinga Z. Si sente molta tensione sul palco e solo Colm O’Ciosoig sembra proseguire imperterrito per la sua strada, felice tra i suoi rulli e piatti. E il buio che avvolge la sala con solo le proiezioni d’immagini frammentate sullo schermo, non aiuta di certo a creare un ambiente più rilassato. A questo punto ho proprio voglia di andarmene, un concerto che mi mette a disagio, ma insisto. Dopo qualche pezzo Hope salta allo xylophono e sembra un po’ piu’ rilassata, si ha un’inversione di ritmo e i pezzi diventano più lenti, e meno cacofonici. Mi lascio trastullare dalla voce di Hope Sandoval, sono quasi soggiogata da queste atmosfere cupe e “lynchiane” e ecco apparire una fotografa sul palco che la mitraglia su tutti gli angoli, e orrore! fa spostare anche i musicisti durante i pezzi per avere un migliore angolo della nostra diva. Ma le foto non erano proibite stasera? Quindi Hope non è un’artista timida come vuol sembrare, sembra che sia piuttosto una persona che voglia avere il controllo su tutto e tutti: la sua immagine, la sua musica. Non c’e’ che dire, rimango un po’ di stucco. Dopo cinquanta minuti di concerto la band sparisce dietro le quinte per poi ritornare con una versione sbalorditiva di “Satellites” che da sola e’ valsa tutto il concerto e i miei vent’anni di fedeltà alla creativa’ e genio di Hope Sandoval.

Friday, July 16, 2010

"Holy Fuck in Heaven" - Holy Fuck - Heaven - London - 24/05/10

Un’altra band canadese? Si sì, molta musica canadese in questi ultimi mesi a Londra, con apice il Canadian Blast Festival di fine Giugno.
In realta' la serata, di questo 24 Maggio, inizia con un concerto alla Scala degli internazionali "Former Utopia". Dopo aver visto brevemente Chiara salutare il pubblico per la sua apparizione, mi scaravento in macchina per attraversare Londra e giungere a Embankment in un bunker buio vicino al Tamigi: l'Heaven. Questo club, noto per essere una discoteca gay e/o trans, sta regalando a Londra, una serie di live di gruppi tra i piu' interessanti del momento.
Stasera è la volta degli Holy Fuck che potete semplicemente tradurre con l'espressione “wow”, anche se di meno effetto.
“Holy Fuck!” è sicuramente quello che Graham Walsh e Brian Borcherd hanno dovuto esprimere durante le prime manipolazioni di suoni e beats per questo loro progetto che si trova all’incrocio tra Gang of Four, Kraftwerk e Trans AM.
Ad accompagnarli sul palco ci sono anche Matt McQuaid al basso e una vecchia conoscenza alla batteria: Matt Schultz (ex-Enon), uno dei piu’ simpatici e affabili batteristi che ho avuto occasione di incrociare nel passato. La linea ritmica sostenuta dai due Matt s’intreccia ai vari rumori strutturati che Graham e Brian danno vita via i loro microfoni per meta’ ingoiati, computers, mixers, melodiche, e altri giocattoli e congegni elettronici vari, tra cui un sincronizzatore per pellicole cinematografiche 35mm. WOW! Un delirio di suono e ritmo. Un pubblico in visibilio perso in danze frenetiche e grida entusiaste tra luci stroboscopiche. E fuori dal concerto, la calma. Attraverso il ponte di Embankment. Il suono soffuso di un sassofono si fonde con il rumore dei miei passi. Le luci distanti di St Paul e di Canary Wharf, l’eleganza del Big Ben e la luna piena che s’incastra come un diamante nel London Eye.
Una leggera e calda brezza soffia oggi sul Tamigi, pre-annunciatrice di una lunga e calda estate. Nelle orecchie ho ancora l'eco dell'incredibile suono degli Holy Fuck, mi fermo qualche minuto a osservare in silenzio questa citta' che amo ogni giorno sempre di piu'. Holy Fuck!! Questa e' la mia&nostra Londra!

Tuesday, July 13, 2010

Il rock degli androidi giapponesi - Japandroids - Garage- London - 20/05/10

Avevo quasi finito di scrivere alcuni pensieri sul concerto dei Japandroids che il tutto e’ andato perso: File Deleted. Ah la tecnologia!. Almeno quando si scriveva a mano, le bozze non scomparivano cosi’ all’improvviso.
Ma veniamo al concerto. Arrivo tremendamente in ritardo al Garage, nonostante sia solo a un paio di chilometri da casa, per l’esatezza 2.49KM, l’ho appena calcolato su Google grazie ai poteri di Internet.
Gli Yuck hanno appena finito, il tempo di passare al bar e i Japandroids,sono pronti a bombardarci di energia vitale.
All’inizio sembra del buon rock and roll gia’ sentito da tempo e poi piano piano i corpi iniziano a muoversi e le teste ad agitarsi avanti e dietro. Non che il pubblico inglese sia mai stato in delirio davanti a una band, da quello che ricordo. Sara' che devono sempre stare attenti a non fare rovesciare la birra che hanno in mano.
Japandroids e’ principalmente una tour band, in meno di un anno hanno fatto piu’ di 250 date. Si vede, si sente, che il live e’ la loro essenza e elemento dominante.
Anche se la musica dei Japandroids e’ sicuramente meno intellettuale e ironica dei No Means No, la buona scuola punk di Victoria (Canada) ha fatto strada e questi due ragazzi ne rappresentano i degni eredi. La formazione e’ elementare : Brian King alla voce, chitarra e David Prowse alla batteria. Spaccano, non c’e’ che dire. Questa sera ci hanno magistralmente regalato un’ora di sudore, e punk rock and roll. E ogni tanto, fa del gran bene.

Monday, July 05, 2010

Tra caos politico e musicale. Boredoms - Forum - London 11/05/10

New York 07/07/07 alle 7:07pm, presso il suggestivo parco dell’Empire-Fulton Ferry State, situato tra il ponte di Brooklyn e quello di Manhattan, settantasette tra i più rinomati batteristi della scena cosiddetta alternativa si riunivano per l'evento organizzato dalla più geniale noise-rock band giapponese:77 Boadrum dei Boredoms.
Tra i presenti David Grubbs, Chris Brokaw, Jeff Salane, Kid Millions, Tim De Witt, Mat Shulz, Brian Chippendale.
Los Angeles 08/08/08 a alle 08:08, 88 Boadrum, con ottantotto batteristi.
New York 09/09/09 alle 09:09 9 Boadrum, con nove batteristi.
Londra 11/05/10. Stasera sara' un 7 Boadrum quindi niente data o orario simbolico. Anche se 11/05/10 e’ una data importante. Stasera 7 Boadrum sara' il primo concerto dell’era del governo di coalizione tra i Tories e i Lib Dem , il cosidetto “hung parliament”. Un evento di caos musicale in parallelo con l'inizio del caos politico, anche sei il concetto di Boadrum e’ molto piu’ semplice del concetto di “Hung Parliament” o sembrerebbe tale.
Boadrum, e’ una parola macedonia tra boa e drum, un boa musicale che vibra dalla testa fino alla coda, via ogni batteria presente, che forma una delle parti del corpo del boa.
Stasera, il boa e' composto da Hisham Bharoocha dei Black Dice, Zach Hill degli Hella! , Kid Millions degli Oneida, Butchy Fugedo dei Pit Er Patt, Jeremy Hyman dei Ponytail, e qui, devo dire che ho fatto fatica a riconoscere tutti.
Ai commandi del cervello come sempre i Boredoms: lo sciamano Yamantaka Eye ai congegni elettronici, Yoshimi P-We alla batteria (si, e’ proprio lei, la Yoshimi, ispirazione di “Yoshimi battles the Pink Robots” dei Flaming Lips) e Muneomi Senju al basso. Stranamente non si vede Yojiro Tatekawa.
Yamantake Eye apre il concerto con le sue grida e danze primitive, cadenzato dalla batteria di Yoshimi P-We seguito nel suo delirio da gli altri cinque batteristi.
A un certo punto sembra che il ritmo si sposti in mezzo alla folla ed ecco apparire, da un angolo buio della sala, infrenabile sulla batteria, Yojiro Tatekawa, che e' portato sulle spalle come durante una cerimonia. L’effetto visto dalla destra della scena, dove mi trovo, e’ sorprendente. Yojiro sembra proprio galleggiare sulla folla. Ad un certo punto la batteria "galeggiante", si ferma davanti al palco, i batteristi sul palco si fermano e parte un’assolo di Yojro. Sembra quasi una scena rituale, Yojiro sembra dover decifrare un codice “ritmico” per avere accesso al palco. Una volta accettato sul palco, il 7 Boadrum puo’ avere inizio.
Ritmo Tribale per quasi un’ora e mezzo di concerto. Sette batteristi che seguono le grida da primate di Yamantaka Eye, e/o le sue improvvisazioni su congegni elettronici e la chitarra a sette manici. Si, una chitarra con sette manici, ovvero il “Sevener” o “Sevena” che apparse per la prima volta su scena per un tour dei Boredoms con gli Iron&Wine nel 1998 (wow, che strano accoppiamento musicale!). Oltre a percuotere il “Sevener” con le mani, Yamantaka Eye usa anche un’asta e i suoi dreadlock quando non e’ impegnato nelle sue danze sciamaniche in mezzo dei sette batteristi che eseguono delle spettacolari variazioni di ritmo. Il concerto e’ possente e sorprende vedere anche dei batteristi cosi’ coordinati in un vortice senza fine. Si trova sia un elemento di ricerca del ritmo oringario del mondo e sia uno spirito di semplice divertimento comune tra i batteristi. Elementi che si ritrovano anche nel collettivo giapponese Kodo. Il concerto finisce. Molti dei presenti hanno l'impressione di aver perso l’udito, ma forse era questo lo scopo dei Boredoms: fare tabula rasa della nostra percezione uditiva per non farci sentire quello che sta succedendo la fuori, nella sede del governo.

Saturday, June 19, 2010

Mark Lanegan - Scala - London - 04/05/10

La prima volta che vidi Mark Lanegan su scena, fu nella primavera del 1990 al Bloom di Mezzago come cantante, dalla voce possente, del gruppo Screaming Trees. Quella sera ebbi anche occasione di conoscerlo e incontrai una persona timida e estremamente gentile e affabile. Quello era il tour del loro terzo Lp “Buzz Factory” di cui, a distanza di anni, invidio sempre il vinile viola che Marcello scovo’ da Zabriskie Point a Milano. Vuoi per priorita’ promozionali della loro major (sulla quale firmarono il loro quarto album “Uncle Anesthesia”), vuoi per l’immagine poco “televisiva” dei fratelli Conner, gli Screaming Trees, non riuscirono mai a ottenere il successo meritato, nonostante siano stati considerati dai piu’ come una delle gemme della scena grunge Americana, accanto a gruppi quali Nirvana, Alice in Chains, Soundgarden e Mudhoney. Durante quel lontano 1990, Mark Lanegan, inizio' in parallelo agli Screaming Trees, una collaborazione con Kurt Cobain e Krist Novolesic dei Nirvana che non arrivo’ mai in porto e che dette idea a Mark di iniziare una serie di collaborazione con altri artisti, come per esempio Mad Season e Twilight Sad e la sua carriera solista.
Da quella serata primaverile del 1990 al Bloom, vent’anni sono trascorsi e molti episodi della mia vita hanno avuto la sua musica come colonna sonora o come perno la presenza di Mark Lanegan anche se in un modo del tutto casuale. Ho avuto occasione di ri-incontrarlo con Cristina, per una conversazione commovente su Jeff Buckley, ho lavorato indirettamente a dei suoi progetti, e stretto dei rapporti d’amicizia con dei suoi amici musicisti.
Nel frattempo Mark Lanegan, dopo lo scioglimento degli Screaming Trees nel 2000 pur continuando una carriera solista apprezzata dalla critica, ma mai coronata dal successo atteso, ha trovato un po’ di notorieta’ cercata grazie alle collaborazioni con Isobelle Campbell, Greg Dulli ma ancora di piu’ con i Queen of the Stone Age (QOTSA) che hanno fatto conoscere la sua voce disitintamente voluttuosa su tutti i palcoscenici del mondo.
C’e’ qualcosa di particolare che unisce Mark Lanegan ai suoi fans, forse la gentilezza, la schiettezza, e forse anche un volere tenersi lontano dale luci della ribalta, personaggio molto schivo che si metteva sempre da parte anche nei tour dei QOTSA.
Personalmente, daun punto di vista artistico, apprezzo la sua carrirera, il suo talento e la sua voce rauca e sensuale.
Non penso di essere mai stata una grande fan dei suoi progetti, anche se devo riconoscere che ho ascoltato fino al consumo ii vinili di Mad Season e Twilight Sad come ovviamente come tutti quelli della sua carriera solista e i primi tre degli Screaming Trees.
Stasera, mi ritrovo qui alla Scala a Londra per un’ennesimo appuntamento dal vivo con Mark Lanegan, vent’anni dopo. Questa volta si presenta solo con un chitarrista. Un’atmosfera assolutamente magica. Nonostante non si muova per nulla su scena sa come ammaliare la sala con la sua voce. Il concerto e’ sold out da settimane e vi e’ un pubblico molto eteregoneo per l’eta e sesso. S’inizia con “When your Number isn’t up” dal suo piu’ recente album “Bubblegum” per toccare a tutta la sua carriera discografica. Mark Lanegan stasera ci offre delle stupende interpretazioni come “River Rise” e “ Bell Black Ocean” da Whiskey for the Holy Ghost, “Don’t forget me” da Field Songs e la struggente “Mirrored” dall’EP “Hit the city”. Non manca anche un pezzo degli Screaming Trees, e del suo ultimo progetto con ii Soulsavers e devo dire che mi sorprende un po’ la scelta della cover di “Julia Dream” dei Pink Floyd. Una grande accoglienza dal pubblico londinese e Mark ritorna sul palco per il bis. Dopo una reprise un po’ flamenca della canzone tradizionale greca “Misrouli”, si sussegue il viaggio musicale nel tempo con “Wild Flowers” tratta da Winding Sheet che mi fa saltare di gioa. Vengo ripresa da una ragazza che ha la meta’ dei miei anni: “scusa ma puoi fare piano?”. La guardo sorridendo, forse e’ la prima volta che vede Mark Lanegan dal vivo, chissa’ se tra vent’anni sara’ sempre ai suoi concerti, chissa’ se Mark sara’ sempre su scena. Intanto mi godo questo momento, il pubblico esulta alle prime note di “Hanging Tree” dei Queen of the Stone Age. Sono tutti cosi' in visbilio che Mark Lanegan ritorna sul palco per il secondo bis per una breve versione di “Field Song”. Ma sembra che non si trovi bene nel ruolo di star protagnosta, forse non si aspettava tutta questa accoglienza. Lascia il palco abbastanza bruscamente ma la serata e’ stata per noi fan indimenticabile come l’incredibile carriera di questo eccelso musicista.

David Dawson - Centre Pompidou - Paris - 10/03-19/07

Parigi e’ sempre stata una meta d’attrazione per i londinesi. In sole due ore e trenta di treno, i londinesi si ritrovano in una delle capitali simbolo dell’eleganza e cultura europea. In questi mesi alcuni londinesi sono inoltre motivati dalla mostra dedicata dal Centre Pompidou a Lucian Freud, la sua prima mostra monografica da oltre 20 anni sul suolo francese. Il tema: lo studio di Lucien Freud. La fila di piu di un quarto d’ora per prendere il biglietto, il costo di 12 euro non mi hanno di certo messo in una buona predisposizione d’animo per non contare un'attesa di un’ulteriore mezz’ora per accedere all'entrata della mostra, forzata contro la mia volonta' ad ascoltare le pedanti conversazioni di due intellettuali francesi, miei vicine di fila. La mostra conta solo quattro sale, con una concentrazione di trenta persone per metro quadro. Anche nell’ora di punta, la metropolitana di Parigi sembra meno affollata. In questa mostra si entra nell’universo personale dello studio di Freud, si guarda dalle sue finestre, si vede negli occhi dell'artista e si viene in contatto con i modelli che passano regolarmente nel suo studio di Notting Hill. Il mondo di Freud e' freddo e cinico come i suoi autoritratti e la crudezza del bianco della carne dei suoi nudi. Ci sembra essere un elemento volontario di provocazione inutile nei quadri di Lucien Freud ma quella che ne scaturisce e' solo una sensazione inconfortevole. Non sono sorpresa dai commenti di alcuni bambini presenti alla mostra :"papa' qui e' brutto, ce ne andiamo?". Ogni tanto bisogna ascoltare la nostra voce interna di bambino e non pretendere a giocare gli intellettuali a tutti i costi. Effettivamente il mondo di Freud non mi trasmette niente e anche se mi applico, trovo le tele di poco interesse. Mi dirigo verso l'uscita e poco prima della porta mi trovo in una piccola saletta dedicata alle impressionanti foto di David Dawson dello studio dell’artista. Tra tutte, un ritratto di Lucien Freud al lavoro, nel suo studio a notte profonda. Un incredibile gioco di chiaroscuro dove l’energia e la determinazione del pittore vengono messe a nudo come in nessuno dei suoi autoritratti. Una foto impressionante che vale tutta la mostra. Peccato che non ci fosse piu’ spazio dedicato ai lavori di David Dawson, un vero peccato.

Saturday, May 22, 2010

Herzog strikes again ! Bad Lieutenant: Port of Call: New Orleans

Nuovo film di Werner Herzog che ha avuto una distribuzione Europea, prima di arrivare nelle sale inglesi. Premetto che non ho ancora visto “Bad Lieutenant” di Abel Ferrara del 1992, quindi non faro' qui paragoni. Si tratta sempre di tenenti di polizia corrotti che si trovano dal lato sbagliato della strada e che cedono a tutte le tentazioni.Per questo film, Werner Herzog ha scelto come attore protagonista Nicolas Cage. E se il suo attore fetticio e’ stato a lungo tempo lo scomparso Klaus Kinski con il quale ha dato vita a dei capolavori quali: Aguirre, the Wrath of God , Nosferatu the Vampyre , Woyzeck e il colossale Fitzcarraldo, non da meno e’ la collaborazione Herzog-Cage. Cage ha di Kinski lo stesso sguardo penetrante che in un attimo puo’mutare dall’innocenza alla piu’ insana follia. Come ben si sa, Nicolas Cage non e’ conosciuto per la sua saggia scelta di film nei quali recitare, forse spinto da un avidita’ economica piuttosto che da una scelta di un percorso qualitativo e quando capita nella mani del regista sbagliato da il peggio di se. Ma quando capita nelle mani giuste, puo’ dare delle performance da oscar come nello struggente Wild at Heart di David Lynch, nel capolavoro di Mike Figgis: Leaving Las Vegas di Mike Figgis e in uno dei capolavori di Martin Scorsese: Bringing Out the dead. Ultima nella lista la sua interpretazione magistrale in Bad Lieutenant di Herzog. La storia e’ quella di Terrence McDonagh (Nicolas Cage), un personaggio senza morale dipendente da farmaci, droghe e gioco che per soccombere ai suoi bisogni cerca prima di corrompere i suoi colleghi per poi unirsi alla mafia locale. Entra nell’equazione anche una famiglia alcolista e il suo amore per una prostituta locale interpretata da Eva Mendez. Ma Terrence non dimentica in tutto questo delirio psicotropo di portare avanti le sue indagini, anche se con difficolta’ e grazie a un colpo di fortuna riuscira' a cambiare tutte le carte in tavola da negative in positive, a risolvere il caso che a essere promosso a capitano, a capitano disonesto. Nicolas Cage riesce ad ingannare chiunque con il suo doppiogioco tra l’immagine del buono e del cattivo, a volte puo’ far strappare una lacrima di commozione e subito dopo farci accapponare la pelle con le sue risate isteriche, la violenza dei suoi gesti improvvisi e la rabbia disumana dei suoi sguardi. Il film, grazie a Herzog, e’ tempestato da trovate geniali, come personaggi e situazioni improbabili e la messa in scena degli stati di allucinazioni del tenente (l’inguana che prende per palcoscenico un pezzo di tavolo o un cadavere che improvvisa una breakdance). E' un film senza un attimo di tregua, e anche se si toccano argomenti duri come quelli della polizia corrotta, della mafia, delle scommesse, droge e prostituzione che per molti di noi rappresenta un mondo a parte, Herzog riesce a renderci partecipi e farci capire che la strada del baratro non e’ lontana per nessuno di noi. Basta solo un gesto come prestare soccorso a qualcuno e la nostra vita potrebbe portarci sulla strada del male come fu per Terrence. Nella scena finale del film il tenente, ora capitano Terrence si ritrova davanti a un acquario in compagnia del prigioniero che nella scena iniziale ha lui stesso salvato dalle acque rompendosi la schiena. Un gesto cristiano e eroico per il quale per curare i suoi dolori ha dovuto iniziare a prendere il Vicodin e altre droghe, un gesto cristiano e eroico che l’ha portato a tuffarsi nelle “acque del male”. Le acque del male, della droga e del crimine nel quale lui adesso e' immerso e sopravvive come quei pesci che adesso osserva, pesci che possono nuotare nelle acque piu’ profonde senza annegare, ma devono essere immersi nell’acqua per sopravvivere.

Wednesday, May 12, 2010

Fottuti Pulsanti! - Fuck Buttons - Koko - London - 20/04/09

Era dall’ultimo concerto londinese dei Sunn 0))), quindi da quasi quattro mesi, che non vedevo un concerto cosi entusiasmante. L’impressione di essere al momento e al posto giusto e con la musica giusta. I Fuck Buttons, i “Fottuti Pulsanti” hanno stile e un fottuto volume.
Stasera, nell’elegante Koko, i Fuck Buttons sono supportati dai Factory Floor, un trio di Hackney, un quartiere all’est di Londra. La prima volta che sentii parlare dei Factory Floor fu tra una mischia e un passaggio di un match di rugby a Parigi.Certamente un gruppo sulle labbra dei connaisseurs musicali francesi.
Un set completamente al buio. Una sessione ritmica impressionante. Una batteria ipnotica che sostiene il ritmo delle bacchette che martellano ossessivamente un basso elettrico, il tutto coadiuvato da tastiere e congegni elettronici. La musica è abbastanza glaciale, le sonorita’ sono post-dark-new wave. Si ritrovano le atmosfere dei Joy Division, Cabaret Voltaire e Fall e anche una certa sperimentazione krautrock degli anni 70. Ho dei ricordi piuttosto tenui delle parti voocali, di certo la musica ne fa da padrona.
I Fuck Buttons: Benjamin John Power e Andrew Hung, si presentano timidamente sul palco. L’uno di fronte all’altro, in mezzo una gigante palla da discoteca che riflette e diffonde luce in tutta la sala. Un pubblico molto vario. Teenagers nelle prime file e qualche over 30 nelle file dietro. La musica inizia piano per poi travolgerci in un vortice di beat a altissimo volume. Le persone attorno a me sgranano gli occhi e iptonizzati iniziano a ballare persi in questo groove di elettronica geniale che non si sentiva più da qualche tempo. E il volume sale e sale fino a quando B.J.Power si lancia quasi messianicamente su un tamburo tenendo un ritmo incredibilmente pazzesco. Sono conscia di utilizzare troppi aggettivi, effettivamente difficile da spiegare, bisogna vederli per capire. Piano anche i corpi dei più reticenti si lasciano alle danze e c’e’ anche qualche quarantenne che irrompe nelle prime file. Spingo violentemente nella mischia questi intrusi ma poi capisco che da tanto si aveva bisogno di un concerto di questo livello, da troppo tempo, forse dai tempi dei concerti di dieci/quindici anni fa di Aphex Twin e/o degli Autechre. Ma i Fuck Buttons fanno anche parte della loro generazione, hanno la stessa energia del duo francese dei Justice ma in versione piu’ oscura e molto meno pop. Si susseguono i pezzi dai loro due album “Sweet Love for Planet Earth” e “Surf Solar” in una lunga e gioiosa festa. Andrew Hung and B.J. Power sono richiamati sul palco, ben due volte. Terminano il loro concerto con una strabiliante versione di “Sweet Love for Planet Earth”. A fine concerto si accendono le luci, gli applausi continuano, visi pieni di stupore e felicita' attorno a me. Il suono dei “Fottuti Bottoni” farà parte del nostro speciale universo sonoro per gli anni venturi.

Thursday, April 15, 2010

"Endless love" - Tindersticks - Sheperd Bush Empire - London - 24/03/2010

I Tindersticks sono, al giorno d'oggi, i degni rappresentanti musicali di un certo romanticismo decadente e melanconico. Oltre agli strumenti ad archi, a fiato e a corde che si fondono nel loro soave soft rock, i Tindesticks hanno portato alla musica la voce sensusale di Stuart Ashton Staples, uno degli uomini piu’ affascinanti del panorama musicale.
I Tindesticks di Nottingham fanno parte di quell’Inghilterra romantica e tormentata che si è impregnata nel mio immaginario dalle letture di Oscar Wilde, John Keats, William Blake e Lord Byron. Nottingham e' anche la citta' di altri personaggi romantici come D.H. Lawrence, il paladino dei poveri Robin Hood e la citta' di quel ragazzo che anni fa mi consegno' un libro, chiedendomi di aprire la pagina dove si trovava il segnalibro solo quando fossi salita su quell'aereo che mi riportava in Italia, dal mio fidanzato bergamasco. Il libro, una raccolta di poemi di Lord Byron. Il segnalibro si trovava sulla pagina di "She walks in Beauty".
Dopo molte lune, mi ritrovo stasera a Londra in questo stupendo teatro per celebrare il nuovo disco dei languidi Tindersticks di Nottingham: "Falling Donw the Mountain".
Il concerto si apre con l'onomio pezzo dai sapori elegantemente jazzy e si annuncia un concerto sobrio e raffinato, come se ne vedono raramente qui a Londra.
In sette sul palco, sembrano particolarmente in forma, molti dei loro amici, familiari in sala. Il violoncellista/sassofonista Andrew Nice fa un saluto molto caloroso ad un paio di persone. Ma l’elemento trascinante rimane sempre Stuart A.Staples, che nonostante sia un po’ invecchiato continua ad infiammare i cuori di tutti i presenti.
I Tindersticks durante la loro performance danno quasi a pensare che siano fin troppo impregnati di romanticismo, di sentimento, da esserne quasi autocompiaciuti anche se ci sono dei cambiamenti di registro verso con canzoni piu' leggere come “Black Smoke” e "Hubbard Hill".
Stuart scherza con la folla “questa sala non mi è mai piaciuta, ma grazie a voi sta crescendo in me”.
Dopo due bis, il concerto termina con l’elegiaca “Raindrops”
"See, what we got here is a tired love
What we got here is a lazy love
It mooches around the house
Can't wait to go out
What it needs, it just grabs
It never asks
We sit and watch the divide widen
We sit and listen to our hearts crumble
With our only chance to jump
Neither of us had the guts
Maybe we're just too proud
To say it out loud
Silence is here again tonight
Silence is here again tonight
"
(“Raindrops” – Tindersticks 1993)
Raindrops era uno dei pezzi forti del loro ononimo primo disco uscito nel 1993.
Guardo le persone in sala e mi chiedo quante di quelle coppie che s’innamorarono su quel primo disco dei Tindersticks negli anni 90, siano presenti in sala stasera, quasi vent’anni dopo. Non ho piu' notizie di quel ragazzo di Nottingham. L’amore e’ vario, cambia con il tempo, anche se, durante questi vent'anni, nulla ha potuto sfiorare il mio amore per i Tindesticks, che si rafforza di anno in anno sempre piu’.

Monday, April 05, 2010

"Adieu et merci " - Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra - Tuesday 25 March 2010 - Electric Ballroom - London

Sono tanti i ricordi che mi legano ai Silver Mount Zion, come quella sera di dieci anni fa. Serata torrenziale, guidavo la mia panda rossa sull’autostrada con la mia amica Giorgia a mio fianco e Doug, un ragazzo australiano conosciuto qualche settimana prima. Dovevamo aver attraversato un'altra dimensione quando arrivammo tra tuoni e lampi a Colchester, in una piccola chiesetta sconsacrata, un centinaio di persone sdraiate per terra e sul palco loro i Silver Mount Zion. Guidati da Efrim Menuck erano al loro primo disco, con un organico di sette musicisti: pianoforte, due chitarre, basso elettrico, controbasso e trio d’archi. L’atmosfera era molto rilassata e a fine concerto, seduti a gambe conserte sul palco,scambiammo quattro chiacchere con la band. Penso che Doug si innamoro' spiritualmente per sempre di Sophie.
Dieci anni dopo molte cose sono cambiate. Stasera e’la settima volta che vedo i Silver Mount Zion dal vivo. Doug e’ ritornato in Australia ma Giorgia e' sempre con me per ricercare la magia di quella notte a Colchester. Stanotte il concerto e' tutto esaurito gia' qualche settimana. L'Electric Ballroom e' una sala fredda qui a Londra, una grossa discoteca con capienza di 1100 persone. Non so perche’ sono qui stasera, forse e’ per un semplice motivo di fedelta’alla band, alla loro filosofia.
Mentre si esibisce Alexander Tucker, mi accosto al banchetto del merchandising, e noto che tra i dischi ci sono anche delle magliette.
Penso che i tempi siano stati duri e siano cambiati sia per i Silver Mount Zion che per la loro etichetta, la Constellation Records, sorrido. A volte hai la fortuna di incontrare delle persone che ti possono cambiare la vita, il tuo modo di pensare e anche il tuo modo di vivere e penso sorridendo che saro’ eternamente grata a Don & Ian della Constellation Records per questo. Compro la maglietta e saro’ fiera di indossarla.
Ritorno sul palco, lato scala che e' anche il posto piu' comodo per vedere il concerto qui all'Electric Ballroom. I Silver Mount Zion sono questa sera solo in cinque: chitarra, controbasso, batteria, due violini e iniziano il loro set di composizioni che trovano un loro punto d'equilibrio all'incrocio del punk-rock, musica neo-classica e klezmer. I Silver Mount Zion anche stasera non deludono, i musicisti sono perfetti, l'atmosfera diventa elettrica.
Personalmente preferivo quando il suono era piu’ ricco e forte e sento la mancanza della chitarra di Ian, del violoncello di Beckie. Sempre impeccabile, a condurre le danze: Efrim Menuck, che aveva inziato questo gruppo come un suo progetto personale al quale aveva invitato degli altri amici.
Efrim mi ha sempre fatto pensare ad un menestrello ubriaco che canta i suoi dolori e frustrazioni alla luna, e stasera non ha deluso i presenti.
Oltre che a un set impeccabile ci sono stati molti scambi con il pubblico in sala, sulle elezioni in Inghilterra (in sintesi: no labour, no tories), del diritto di voto (meglio non votare), sul pene di Lady Gaga. Si e' anche parlato di pop "we don't play pop because we don't have the look and it's easy and depressing and does not pay. It required dedication and we are shallow". Un'altra domanda viene spontanea dal pubblico, e i Godspeed? Efrim e’ l’unico ad esprimersi: “You bring them back you fucker. It’s easy it's only 4 chords…4 chords on a long runaway”. Commento che lascia con l’amaro in bocca molti dei presenti che sperano che un giorno i Godspeed You! Black Emperor, questo collettivo anarchico di Montreal di cui Efrim, Sophie e Thierry fecero parte risorga presto dalle sue ceneri. Sophie e Thierry presenti anche loro sul palco si astengono da ogni commento e sembrano perplessi dai commenti di Efrim. Continua poi le sue chiaccherate con il pubblico in un personale sproloquio dalla sua passione per gli Specials alle parolacce che ha imparato in inglese. Ma la band e lo stesso pubblico lo riporta alla realta "vogliamo sentire la musica".
La serata prosegue con “There is a Light” e “1,000,000 Died to Make This sound” e tra il pubblico viene ricordato che anche i compianti Vic Chesnutt e Ron Asheton hanno partecipato al suono di questo gruppo.
Due ore e mezza di concerto in piedi, ho male ai piedi, ed il mio corpo e’ indolenzito.Concerto senza dubbio perfetto, i presenti sembrano vivere un esperienza estatica ma penso che il mio entusiasmo verso la band sia scemato con il tempo, forse con l'eta'(?) e nonostante ci provi ancora, non riesco piu’ a provare molte emozioni. Rientrando a casa penso che e’ oramai giunto il tempo che abbandoni i Silver Mount Zion per la loro strada. Li ringaziero’ per sempre per avermi potuto dare la prova che su questo mondo malato ci sono delle persone come loro: "beautiful and strong".

Tuesday, March 30, 2010

Bestie Selvagge da circo - Wild Beasts - Koko 24/03/2010 - London

Il Koko e' una sublime sala di concerti londinesi nata da una brillante ristrutturazione di un teatro del 1900. L’interno e’ in stile squisitamente barocco, con pareti in acrillico rosso e delle cariatidi con drappi dorati che sembrano sorreggere i balconi con estrema disinvoltura. Ad ogni piano dei bar con comodi divani, nonche’ un’ampio terrazzo che da su Camden High Street dove il traffico, anche la notte, non ha mai sosta.
Lunedi 24 Marzo e' la seconda serata sold out nel giro di un mese, per i Wild Beasts, figli di Kendal, citta’ sperduta nel nord dell’Inghilterra. 3,000 persone accorse in due sere per celebrare il loro secondo album « Two Dancers » uscito su Domino Records nel 2009.La serata prevede due gruppi d’apertura gli Esben and the Witch, che ho perso per aver indugiato al bar con degli amici, e gli Everything Everything che molti citano come "the next big thing" ma che a parte il loro piu’ noto singolo ballerino "Photoshop Handsome" lasciano indifferenti la maggior parte dei presenti.
Le luci si abbassano e dalla oscurita’ entrano in scena loro: i Wild Beasts, i poeti maledetti del pop di Kendal che sono riusciti a sfondare laddove molte bands della loro regione avevano fallito.
I Wild Beasts sono senza dubbio una band di cui il piatto principale e' il riuscitissimo intreccio della voce basso di Tom Fleming e del falsetto di Hayden Thorpe.
Hayden Thorpe, personaggio senza dubbio affascinante, fa parte dello stesso mondo barocco di Antony Hegarty e Jami McDermott anche se si presenta su scena in modo molto semplice, jeans e camicetta a quadri, come anche semplice appaiono gli altri membri di queste "bestie feroci". Durante tutto il concerto sembra di essere di fronte a dei bravi ragazzi che non vogliono uscire dalle righe, che suonano, cantano in maniera precisa ma che non trasmettono al pubblico visivamente la forza della loro musica. Una scena forse troppo semplice e pulita che si stacca quasi in maniera sorprendente dai mondi sotteranei e lascivi evocati dai loro testi dove il desiderio carnale incontra il labirinto della distruzione e repulsione.
Anche se i Wild Beasts hanno trovato un suono di una certa new wave degli anni 80 riportando di attualita’ i Cure e i Divine Comedy purtroppo dopo tre quarto d’ora subentra un po’ di ripetitivita’ che fa perdere l’entusiasmo iniziale del pubblico. Il concerto finisce "Cheerio Chaps, Cheerio Goodbye" e l'ultima frase "un requiem in una tenda da circo" sembra quasi stonata stasera, forse si parla di un circo immaginario dove le nostre "bestie feroci" ,tenute in cattivita’ sulla scena, hanno perduto la loro selvaggia creativita’.

Un angelico americano a Londra - DM Stith - Slaughtered Lamb - London 23/03/2010

Scoprii David Michael Stith, in arte DM Stith, via un video che una mia amica posto', piu' di un anno fa, su facebook. Che purezza, che spiritualita'. L'emozione che ebbi al primo ascolto fu molto simile a quello che provai le prime volte che sentii Jeff Buckley e Antony and the Johnsons. Qualche settimana piu' tardi vidi DM Stith dal vivo accompagnato da una band in un piccolo teatro di legno nell'est di Londra. Un music hall costruito nel 1863 per la comunita' di Shoreditch che ha tutta l'apparenza di un saloon di un film western, e che per anni e' stata usato come sala di reunioni dei Quaker. Quella sera molti sguardi sognanti e molti occhi lucidi tra i presenti. Quasi dopo un'anno DM Stith ritorna in una sala ancora piu' intima, allo Slaughtered Lamb,solo con una chitarra e un pedale con effetti eco e loop. E' di nuovo a Londra per presentare in anteprima qualche nuovo pezzo. DM Stith ha una voce angelica e pura. David Michael avrebbe potuto far parte del coro della chiesa diretto da suo padre, al quale insegnamento si sottrasse per seguire la sua indole grafica e per scappare ad una spiritualita' imposta nella quale non si riconosceva. E pertanto,durante il concerto, sembra che DM Stith abbia fatto un suo proprio intimo percorso alla ricerca del suo io e abbia trovato la sua vera spiritualita' che ora trascende stasera la sua musica. Satasera da solo di fronte a noi, gli accordi e gli arpeggi della sua chitarra sono piu' complessi e nulla tolgono ai brani che si ascoltano sul suo disco "Heavy Ghost". Anzi in questa saletta con divanetti in pelle si instaurauna piu' forte comunione e si ha l'impressione di condividere con lui un momento di intimita' irrepetibile. Stasera, oltre che a alcuni nuovi pezzi con "Impatience" e le preziose gemme di "Heavy Ghost", DM Stith ci regala una cover stupenda di "Spirit Ditch" del recente scomparso Mark Linkous (aka Sparklehorse) con il quale aveva in comune una particolare direi pericolosa sensibilita' musicale. L'elegiaco concerto scivola veloce e le anime di stasera sono conquistate e ammutolite da tanta bellezza. Lasciamo silenziosamente la sala e mentre camminiamo nelle strade deserte di una domenica notte londinese, risuona ancora l'eco dell'encore "just once just once, did you love me once?".

Wednesday, March 24, 2010

La forza tranquilla dei giapponesi Mono. Scala - London - 15/03/2010

Andare a vedere i concerti di Lunedi richiede sempre un grosso esercizio fisico e mentale, il week-end lontano, e ci si sente tutti piu’ stremati. Era da un po’ che ero curiosa di andare a vedere i Mono e quale migliore occasione di un concerto londinese alla Scala. In apertura lo svedese John Alexander Ericson. Su scena con la chitarra non lascia un’ impronta troppo impressionante. E poi appaiono loro: i Mondo. Ai due lati del palco, seduti con le loro chitarre Takaakira Goto e Yoda , alle loro spalle Yasunori Takada alla batteria e con un imponente gong e, lei, centralissima: Tamaki Kunish la dea giapponese del basso (che stasera si cimentera’ anche alle tastiere per un paio d’occasioni). Immagine e musica di forte impatto. Gia dal primo brano "Ashes in the snow" vengono in mente i Godspeed You! Black Emperor che del neo prog rock furono gli artefici agli inizi degli anni 2000 e che, caso strano, avevano tratto il loro nome da un film giapponese degli anni 70. Il gioco musicale e’ uguale, e’ sempre quello del piano delle chitarre, che s’intreccia a una cresente sessione ritmica e che avanza galoppando verso il fragore musicale per poi fondersi nel chaos. Un immaginario musicale quello dei Mono che ci porta lontano alla natura del loro amato Giappone fatto di ruscelli, giardini zen, ciliegi in fiore ma anche della forza brutale dei terremoti, uragani e vulcani pronti a esplodere in qualsiasi momento . Una musica molto cinematica e struggente, non a caso Takaakira Goto cita tra le sue fonti d’ispirazione “Breaking the Waves” di Lars Von Trier. Musica quindi cinematica come quella dei Godspeed. Ma se nella musica di quest’ultimi il punto forza era il passaggio dal piano al sostenuto, nella musica dei Mono sembra essere piu' incentrata sulla ricerca della perfezione in ogni nota che si connubia al virtuosismo di questi quattro musicisti, tra cui spicca l’incredibile maestria di Takaakira Goto al fender. La forza dei Mono sta nei momenti lenti che cercano quasi di tenere in sospeso a mezz’aria in un momento di immensa e tremenda bellezza. Questo tour coincide con l’uscita di “Holy Ground: NYC Live With The Wordless Music Orchestra” un live di 90 minuti filmato a New York con un orchestra di 24 musicisti e la produzione del grande Matt Bayles (Mastodon, ISIS, Minus the Bear). I Mono stasera anche se solo in quattro sono riusciti a colmare di gioia gli animi dei presenti.

Monday, March 22, 2010

Quando l'orso perse le grinfie. Grizzly Bear - Roundhouse - London 13/03/2010

Due serate sold out da mesi per gli americani Grizzly Bear al Roundhouse di Londra. Il Roundhouse costruito nella zona di Camden nel 1846 come deposito dove riparare le locomotive, e’ un luogo sicuramente suggestivo, che nonostante i recenti restauri, costati piu’ di 40 milioni di euro, continua ad avere una pessima acustica per i concerti.
I Grizzly Bear salgono su scena verso le 21.30 acclamati da un pubblico trepidante e aprono il concerto con “Southern Point” che apre pure il loro ultimo lavoro “Veckatimest” del 2009 e a seguire la piu' popolare “Cheerleader”.
Se su disco si possono assoporare tutte le sottiglieze del folk-jazz psichedelico di questo quartetto di Brooklyn, in un suono che sembra puro nonostante la complicata tessitura, durante il live si perde la diversa stratificazione, rendendo anche le armonie vocali molto banali e noiose.
Sul palco c’e’ un’atmostera di festa di paese, diverse luci che penzolano da trespoli, un'atmosfera semplice ma non elettrificante. E non c’e’ da soprendersi sapere che Edward Droste e compagni abbiano passato mesi e mesi rinchiusi in un appartamentino a registrare musica su nastri. Tutto molto studiato a tavolino, pulito e anche le semplice emozioni che cercano di trasmettere dalla scena, sembrano misurate con il righello strappato dai banchi di scuola. La loro musica fa presa sulle persone presenti al concerto, un 90% di ventenni che sembra appartenere ad un ceto medio benpensante della borghesia inglese. Mentre mi chiedo come mai la Warp, conosciuta per la sue scelte musicali avventurose, abbia voluto una band dal suono talmente insipido nel suo catalogo, Victoria Legrand sale sul palco e ci regala la sua splendida voce in “Two Weeks” e “Slow Life” e mi rammarico un po' di aver perso in apertura l’esibizione del suo gruppo Beach House. Spero per un punto di svolta a questo punto del concerto, ma una volta che Legrand lascia il palco, non succede proprio nulla di eccitante. Avrei solo bisogno di sedermi su un divano e di addormentarmi a migliori sogni musicali.

Thursday, March 18, 2010

Exit Through the Shop

Prodotto da Bansky, scritto e creato assieme a Thierry Guetta (aka Mr Brainwash), “Exit Through the Shop” (l'Uscita dal negozio) anche se in veste comica e leggera e’ una profonda riflessione sulla street art o arte di strada. ll documentario come dice Bansky “e’ la storia di un uomo che ha cercato di filmare l’infilmabile e ha fallito” e ruota attorno al rapporto tra lui e Thierry Guetta (aska Mr Brainwash).
Da una parte l’arte di strada del talentuoso Bansky ironicamente contestaria, contro l’establishment politico e culturale. Bansky cerca di tenersi allo scuro della massa ma per soppravvivere e' costretto a trovare un modo intelligente e provocatorio per farsi conoscere dai media e dalle celebrita’ che posssono finanziare e tenere viva la sua arte.
Dall’altra parte Thierry Guetta, aka Mr Brainwash, privo di talento, che gestisce un equipe di creativi e arriva dietro i primi incoraggiamenti di Bansky a creare un’arte di strada alla luce del sole, dietro al quale non c’e’ nessuna riflessione. Mr Brainwash ingabbia l’arte di strada e la rende di facile fruizione, usando principalmente delle immagini del mondo del cinema e in generale dell’intrattenimento come aveva gia’ fatto Andy Warhol negli anni 60.
L'arte di Mr Brainwash e' un arte fatta e ideata per le masse, di facile accesso alle celebrita’ e ai media. Tutti possono far parte del suo mondo contrariamente a quello di Banksy o Shepard Fairey fatto di lavori politicizzati che richiedono una piu'attenta riflessione.
Durante il documentario, vengono in mente molte questioni come :C'e' una sostanziale differenza tra l’arte di Bansky, Shepard Fairey e Mr Brainwash? Cosa significa in realta’ l’arte di strada al giorno d’oggi?
Si riflette inoltre anche sul limite fisico della strada come luogo di espressione dell'arte di strada: Si deve considerare arte di strada solo quell’arte che viene fatta sui muri delle citta', quella degli artisti braccati dalla polizia che finiscono arrestati, denunciati e che vivono a stenti? O si puo' considerare anche ARTE quella stessa arte di strada ingabbiata tra le mura dorate delle aste e delle case dei collezionisti, caduta nel vortice della piu’ volgare mercificazione come era gia' successo al movimento dei “Young British Artist” e della “Pop Art”?
In realta' il documentario di Bansky&Guetta apre un dibattito al quale non offre risposte sicure. Bansky, che nel documentario appare come una persona simpatica e autoironica, e Guetta, che e' ritratto con una disarmante e quasi falsa ingenuita’, sembrano offrirci le due facce della stessa medaglia, inscindibli l’uno dall’altra. L’arte di Banksy non potrebbe sopravvivere senza la commercializzazione e "l’arte del commercio" di Guetta non potrebbe esistere senza il talento di Bansky, Shepard Fairey, Space Invader e tanti tanti altri che hanno contribuito alla nascita e al successo della street art.
“Exit Through the shop” non e' “la storia di un uomo che ha cercato di filmare l’infilmabile e ha fallito” ma la storia di un uomo, di un collettivo di uomini che credeva nell'arte fine a se stessa e ha dovuto arrendersi davanti alla odierna societa’ del consumo di massa trovando l'uscita dal negozio.

Friday, March 12, 2010

Get Well Soon e Musee Mecanique in piena forma

Londra - Borderline - 10 Marzo 2010
Intro:
E’ un momento difficile, sto cercando di scoprire nuovi gruppi ma le nuove uscite e le informazioni musicali vanno ad altissima velocita’. Non facile per una persona che ha avuto 20anni negli anni 80, quando le uniche referenze nel campo musicale erano un paio di riviste mensili ed un paio di programmi alla radio. Oggi, negli anni 2000 per seguire le novita' musicali cerco quindi di seguire dei suggerimenti sentiti via podcast, vedere dei siti di musicisti su my space, guardare dei video di nuove bands su you tube, seguire dei blog di amici fidati e/o di alcuni giornalisti musicali e inoltre vado a dei concerti senza essere molto sicura di chi stia andando a vedere. Direte voi, comprare cd/mp3/vinili ? La mia filosofia e’ che prima viene il concerto, la comunione con il gruppo, se il concerto mi piace compro il vinile direttamente alla band la sera stessa, costa di meno e sono cosi’ sicura che una grossa parte del ricavato vada direttamente in mano loro. CD? No! Solo Vinili. La bellezza dei vinili al giorno d’oggi e’ che pesano quasi tutti 180g e sono accompagnati da artwork suggestivi nonche’ da un simpatico coupon per scaricare gratuitamente l’album in MP3. Personalmente abolirei i cd alquanto antiestetici e se fossi una band e avessi un po' di budget disponibilie creerei dei cd rom interattivi con video, lavori, informazioni sull’artista, giochi interattivi, ect.
Musee Mecanique:
Ma veniamo al concerto di ieri sera. Via un paio di podcast su "France Inter" e "Les Inrocks" e una mia piccola confusione sui nomi delle bands, sono giunta al Borderline, uno scantinato con capienza di 275 persone. Che gli inglesi non siano abituati ai nomi delle bands americane in francese, l’avevo gia’ notato sul mio biglietto e sul sito del Borderline che riportavano erroneamente che Music Mecanique avrebbero aperto la serata. Poco importa, sul palco ci sono loro : Micah Rabwin e Sean Olgivie che si alternano alle tastiere,chitarre, percussioni, sega ad arco, canto, mentre Brian Perez si avvince sulle tastiere, glokenspiell, melodica organo a bocca, lap steal. Si, questa volta i "Musee Mecanique", sono solo in tre. La band nonostante appaia titubante di fronte ad un pubblico londinese alle prese con chiassosse conversazioni al bar, presenta qualche brano tratto dal loro album "Hold this ghost" e anche un nuovo pezzo che come annuncia Sean "it’s about travelling". Di tempo per scrivere nuovi pezzi ne hanno avuto durante questo tour Europeo che li portera' anche a una sold out Ancienne Belgique a Bruxelles e alla mitica Olympia a Parigi. Mentre la voce di Micah Rabwin ci fa venire in mente lo scomparso Elliott Smith, Sean Olgivie (che fa pure parte dei Tristeza) evoca piuttosto le calde atmosfere di Bon Iver. Il suono dei Musee Mecanique che puo' essere catalogato nell'americana, nell’alternative country folk, innonda il Borderline con delle dolci atmosfere di tempi passati e nostalgici, contro la frenesia e il rumore della nostra epoca. Atmosfere oniriche con un impressione di sottofondo sonoro di una vecchia e polverosa meccanica che piano piano, durante il set, avvinghia le menti e l’attenzione anche dei piu’ riluttanti chiaccheroni. Il concerto finisce in un magico silenzio e con un fragoroso applauso. Micah, Sean e Brian sembrano emozionati e soddisfatti, non capita spesso ai gruppi spalla di ricevere un'accoglienza tale, qui a Londra.
Get Well Soon:
Ecco adesso sul palco i Get Well Soon, progetto della mente geniale del tedesco Konstantin Gropper. Devo ammettere che nonostante cercassi di seguire tutti i musicisti durante il loro set, non riuscivo a staccare gli occhi di dosso a Kostantin, ammaliata dal suo magnetismo e carisma. Una strana sensazione di essere davanti ad un genio musicale. C’e’ qualcosa di potente e quasi pericoloso che emana Mr Grooper, e non mi sorprende a fatto che abbia potuto elaborare il progetto di Get Well Soon da solo.
Konstantin Gropper compone effettivamente da solo per meglio fantasticare sul suo mondo interiore e trascriverlo in musica, registrando e suonando lui stesso tutti gli strumenti uno dopo l’altro: voce, fiati, corde, percussioni, elettronici…ect.. Anche se questa volta per la registrazione di "Vexations", visto l'impresa titanesca si e' fatto aiutare da altri musicisti. E non solo, e' anche uscito dalla sua camera per prendere ispirazioni dall'esterno, registrando i suoni della natura che lo circondava. Queste passeggiate sonore nei pressi del lago di Constanza, dietro casa dei suoi genitori, hanno anche ispirato una collaborazione con Philipp Kaessbohrer per un making of-video dello stesso "Vexations".
Stesso video che viene da fare da sfondo scenico durante il concerto di stasera, che si apre con "Nausea". Si sente un rumore di sottobosco e improvvisamente davanti a nostri occhi, appare una bambina che sembra si sia persa in un bosco misterioso e pieno di paure, quelle stesse paure che accompagnano la nostra vita.
Kostantin Gropper stasera coadiuvato da altri quattro musicisti al basso, chitarra, tastiere, violino, sassofono, vibrafono e percussioni varie (campane, piatti, tamburelli, ect..), crea un’atmosfera al tempo stesso intimista ed energica, innondante di quella luce abbagliante che si trova solo negli abbissi dell’animo.
Ci vengono in mente Arcad Fire, Lou Reed, Beirut, Jeff Buckley, Suede e anche Jim Jones (ma qui non chiedete!). La sala e’ subito emotivamente soggiogata dalla band e anche i piu’ scettici rimangono piacevomente basiti.
Il live set continua con "A voice in the Louvre". Una bambina davanti a dei quadri nel Louvre :"mi hanno detto di guardare i quadri perche’ posso vedere dei mondi passati e migliori, ma ho l’impressione che i quadri guardino me". E si continua con la trovata divertente per la canzione "We are ghost": il coro che interviene e’ un playback degli stessi Get Well Soon filmati in veste di fanstasma. Seuguendo gli abbissi di "A Burial at Sea", siamo poi ricatapultati nella foresta tedesca di "Angry Young Man" dove Kostantin denuncia la violenza ingiustificata dell'uomo nei confronti della natura. E cosi’ lentamente giungiamo alla fine del concerto dove siamo esortati a ripensare al modo in cui viviamo: "anche se diamo per scontato la nostra vita, siamo gli artefici del nostro proprio destino". Forse ci saremo risparmiati la tua lezione di vita, caro Kostantin, ma dobbiamo essere grati a te e ai tuoi musicisti per la serata indimenticabile che ci avete regalato: we are all well tonite!

Thursday, February 04, 2010

Il profeta della 500esima Galassia

Le onde di France Inter trasmettono "Ceremony" dei Galaxie 500 . Qualche ora fa, le stesse onde annunciavano la nominazione agli oscar di "Un prophete", l'ultima fatica cinematografica di Jacques Audiard.
Questa volta Audiard per il suo film ha scelto una pletora di attori sconosciuti ma altrettanto talentuosi come i suoi ex-protetti Romain Duris e Vincent Cassel. Un terno al lotto che Audiard ha egregiamente vinto. Accanto al piu' noto Niels Astrup, troviamo Tahar Rahim nel ruolo del protagonista Malik, una vera e propria rivelazione, ma altrettanta attenzione merita Adel Bencherif nel ruolo di Ryad, fedele amico di Malik. "A Prophet" e' un film intrigante con una sceneggiatura che fa tenere gli spettatori con il fiato in sospeso durante due ore.
La trama e' semplice: Un giovane ragazzo (Malik) con un passato traumatico che si puo' leggere sulle sue cicatrici, entra in prigione. Non si sa perche', ma si sa che il reato e' grave: 6 anni di reclusione. Malik non ha ne' amici, ne' famiglia, ne' istruzione, ne' religione.
In prigione, in cambio della propria vita, viene reclutato per compiere un omicidio da un clan di mafiosi corsi. Malik entrera' cosi' a far parte del crimine organizzato prima come segugio del clan dei corsi e piano piano come vero e proprio gangster di successo con sue attivita' di spaccio e racket. Non mancheranno i colpi di scena, le sparatorie e le scene splatter di sangue e violenza come in ogni buon film sulla mafia che si rispetti. Scene destinate a fare entrare "Un prophete" negli annuari della storia del cinema vicino ad altri classici come "Scarface", "Il Padrino", "C'era una volta in America". Ma se in questi film le storie di gagsters ruotavano attorno a delle famiglie mafiose italiane, questa volta si e' voluto giocare sul lato internazionale della mafia e delle organizzazioni criminali odierne. Quindi clans con diverse origini, storie, alleanze e valori, si fronteggiano per la sopravvivenza e per il controllo nel crimine organizzato dentro e fuori le carceri. All'inizio Malik cerca d'integrarsi nel clan abbattendo anche le barriere linguistiche.
Ma la storia della mafia corsa, e' una storia fatta di famiglie e di clan e non c'e posto per i "sporchi" stranieri. Rifiutato Malik che ben presto capisce che tutto ruota attorno al potere e ai soldi, si allea con uno zingaro per ricoprire una tratta della droga tra Francia e Corsica. Ma la tratta e' coperta anche dal clan degli egiziani filo musulmani e qui dovranno scendere in campo le doti di negoziatore di Malik.
Giuste alleanze che solo un profeta come Malik puo' stringere. Il profeta che grazie al suo messaggio e alle sue azioni porta nuovo cambiamento nella criminalita' organizzata. E Malik compie un atto che solo un profeta, che e' stato in contatto con il supernaturale e il divino puo decidere di compiere da solo, l'ultimo atto della sua rivelazione: lo smantellamento del clan dei corsi.
E Malik oramai adulto uscira con una storia che si sara' creato grazie alla prigione. Ma una storia violenta e fatta di crimine organizzato, quasi a dire che la prigione non riesce a riabilitare nemmeno gli animi piu' sensibili.
A mio avviso il film manca di una piccola dose di realismo ed e' ahime' dotato (oltre che di una traduzione dei sottotitoli in inglese molto approssimativa) di una mediocre colonna sonora molto lontana dalle produzioni di Giorgio Moroder e dai capolavori di Ennio Morricone, ma forse vicina allo scarso gusto musicale che investe la nostra epoca. Comunque nulla toglie a questo film di avere delle buone potenzialita' di vincere uno o piu' Oscar nel 2010. Aspettando la notte del 7 Marzo per le premiazioni mi glisso gentilmente nella mia 500esima Galassia.

Wednesday, February 03, 2010

Vinico Capossela a Londra

Ho preso il biglietto per Vinicio Capossela il 29 Gennaio alla Union Chapel a Londra, curiosa di sapere se il musicista che avevo tanto amato alla fine degli anni 90 avesse intrapreso dei nuovi affascinanti sentieri.
Dalle notizie giunte qui e li, sapevo che nel frattempo aveva incontrato i miei cari Calexico e che proprio il 29 Gennaio, alla Union Chapel,partiva il suo primo tour mondiale.
La serata non inizia nei migliori dei modi, gli organizzatori fanno aspettare il pubblico in fila per piu’ di una mezz’ora "i musicisti stanno allestendo la sala". La fila che inizia davanti alle porta della Union Chapel va su per le scale e finisce al bar dove con un paio d’amici inganniamo l’attesa con un paio di birre.
C’e’ una bella atmosfera nel bar dello Union Chapel,luci soffuse e divanetti.
Lungo le pareti si ripete lo stesso quadro raffigurante Vinicio Capossela con un ghigno di sfida (la copertina del suo nuovo disco “The Story Faced Man”) che sembra dire "vedrete cosa vi ho preparato stasera"
La mia aspettativa cresce “chissa’ cosa tira fuori dal capello stasera”. Le porte si aprono e ..niente..un paio di strumenti buttati sul palco, ta l'altro anche mal disposti. I musicisti nascosti quasi dietro le casse, sembravano essere distaccati ed in secondo piano rispetto a Vinicio Capossela che aveva anche messo il suo piano a muro centralissimo. Questione di ego..uh?
Vinicio Capossela che alcuni anni prima mi era sembrato rilassato e molto scanzonato, doti che facevano parte della sua genialita', sembra stasera molto nervoso. Prima cerca di allontanare i fotografi (perche’ allora farli venire?), e continua imperterrito a fare cenni irati ai suoi musicisti invece che ballarci assieme e invitarci alla loro festa.
Le due ore di set spaziano veloci tra la sua vasta discografia. Durante la prima parte sembra quasi di essere in un piano bar italiano con le sue composizioni un po' piu’ leggere. La seconda parte, che inizia con “Estate” e' un po’ piu’ fantasiosa e prosegue con pezzi storici come “Maraja’” e il “Ballo di San Vito”. Per questa serata inglese,Vinicio Capossela e’ anche coadiuvato da un menestrello che recita di tanto in tanto delle poesie inglesi via megafono, lasciando perplessi anche i rari autoctoni presenti in sala.E si susseguono anche travestimenti in maschera e personaggi circensi che s’inseguono per la sala...ma sembra uno spettacolo quasi forzato e studiato a tavolino e manca di quella sincerita' e energia che hanno reso grande questo personaggio.
Che dire? Sarei curiosa di sapere come un pubblico inglese avrebbe reagito. Noi Italiani, si sa, brava gente, siamo un buon pubblico, pronto a cantare, a ballare alla prima nota.
E devo riconoscere che l'impronta italiana del pubblico ha aiutato a dare un po’ di pepe alla serata.
Nonostante le incensanti critiche del New York Times, Sunday Time (che non leggo..tengo qui a sottolineare), Mojo e l’entusiasmo del pubblico in sala, a fine concerto rimango con una punta di amaro in bocca.
Mi sembra che da 10 anni, Vinicio Capossela stia ripetendo in modo quasi invariato il suo melodrammatico cabaret gypsy/jazz&varieta'italiano che ha, per essere del tutto onesta, perso la sua impronta gypsy&jazz. Forse sta cercando di conquistare delle piu' ampie platee e sconfina in canzoni piuttosto pop che possano rappesentare e riscontrare il gusto popolare italiano. Ma ho dei dubbi che sia la giusta direzione con la quale Vinicio Capossela possa incendiare le platee internazioniali, eccezione ovviamente fatta per le centinaia di expat italiani.

Friday, January 22, 2010

Ed Ruscha - Hayward Gallery

A Londra, La Hayward Gallery ha recentemente dedicato una retrospettiva sui 50 anni del percorso pittorico di Ed Ruscha, personaggio “a 360 gradi” che, dagli anni 60 in poi, oltre che sulla pittura, ha avuto anche una vasta influenza sul cinema e sulla fotografia.
Non facile da catalogare, Ed Ruscha, pittore. Oltre ad essere un pioniere della Pop Art e’ anche un fuoriclasse della pittura concettuale, surrealista, post-moderna e astratta. Per questa installazione, la Hayward Gallery, ha seguito un ordine cronologico. L’emozione che si prova durante la visita e’ quella di una malinconia generalizzata fatta di un energia travolgente ma allo stesso tempo sempre imprigionata e controllata.
Ci si puo’ perdere per ore nei suoi quadri. Ad ogni osservazione si trovano nuove prospettive e nuove interpretazioni.
Diceva, per l’appunto, Ed Ruscha in un’intervista:“Se guardi una parola abbastanza a lungo inizia a perdere significato. Che taglia hanno le parole, che colore?”.
Ed e’ con il 1962, che il significato della realta’, e piu’ precisamente delle parole, inizia ad essere alterato sulle sue tele.
Ma, la semantica, che Ed Ruscha cerca di annientare, riemerge forte e chiara in nuove prospettive e colori delle lettere delle stesse parole. Cosi’ siamo infastiditi dal giallo&blu di “Noise” (rumore) e veniamo scossi dal riverbero delle linee gialle e nere di “Scream” (urlo).
Il suono continua a giocare un ruolo predominante anche nelle successive riproduzioni di oggetti quotidiani. I quadri sembrano emettere un rumore che arriva al nostro udito prima di poter prendere coscienza.
E’ un continuo gioco di trasformazione del significato e dei sensi, come l’alterazione mentale nei suoi quadri raffiguranti pastiglie che sembrano mantenersi sospese sulla tela. Un gioco che arriva, come suggerito dal critico Dave Hickey, fino al potere del fuoco che distrugge i distributori di standard, che elimina i ristoranti che servono le norme e gli istituti che cercano di regolamentare l’arte moderna.
Ed e’ forse secondo questo stesso percorso che, dopo una breve pausa all’inizio degli anni 70, Ed Ruscha arriva all’alterazione della stessa pittura. Lascia da parte temporaneamente la pittura ad olio per iniziare a dipingere con tuorli d’uovo, cioccolata, caviale, petali di rosa, sangue.
Nello stesso periodo, continua anche a sperimentare nuove prospettive con frasi ordinarie che appaiono fuori contesto su sfondi di tramonti, paesaggi naturalistici o su visioni notturne di piste di atteraggio di Los Angeles. E il gioco della prospettiva viene spinto ancora piu’ lontano fino a creare un nuovo carattere tipografico, un carattere molto piatto che aggrava il senso di profondita’ delle stesse frasi: il “Boy Scout Utiliy Modern”.
In questi anni, oltre ai vari materiali organici, Ruscha lavora anche con l’aereografo per farci entrare in mondi dimenticati nella nebbia, per darci un assaggio di realta’ oramai a noi lontane come le ombre di quelle navi e di quelle carovane cariche di speranza e di storia, ombre lontane di quell’America oramai cosi’ moderna.
E l’America monderna Ed Ruscha non l’hai mai amata. Tecnofobo, ha una passione smisurata per i vecchi film, le vecchie pellicole, che riproduce in "The End". In questo dipinto in particolare, sembra quasi essereci un monito alla perdita di un passato che cerchiamo di ignorare ma che sembra far parte del ciclo infinito della nostra storia.
Il netto distacco dalla modernita’ si continua ad avere nelle sue successive montagne. L’idea delle montagne quindi come alternativa e fuga pittorica dalla ciita’? Come il punto piu’ alto di distaccamento dalla citta’ verso l’infinito?
La montagna di Ruscha non e’ una montagna qualunque, e’ la montagna ideale che deve perfino apparire tridimensionale per risultare piu’ vera e per questo si fa aiutare anche questa volta dalla tipografia. Una lettera, una parola che prima d’ora non aveva nessun’altra funzionalita’ eccetto quella della sua semantica, adesso, a cospetto della montagna, sembra creare tensione offrendo una tridimensione al dipinto.
E la diatriba tra passato e presente si ritrova anche nei quadri raffiguanti quei capannoni industriali di perieferia che cambiano contiunuamente attivita’. Il passato ha colori grigi come quelle fotografie di una vita passata e il moderno ha colori inquietanti, violenti, in realta’ molto piu’ freddi del semplice grigio.
La mostra si chiude con i suoi due ultimi lavori in ordine cronologico “Aztec” e “Aztec in Decline”. In questi 2 dipinti dello stesso muro di un tempio atzeco, c’e’ un lamento per la rovina della civilta’ a a causa dell’uomo che tutto distrugge.
E se nel nel primo quadro la prospettiva e’ maestosa ed i colori contenuti, nel secondo quadro i colori fuorisecono dalla prospettiva, sgorganti come il sangue di cui sono coperte le mani dell’uomo e della civilta’ moderna. L'uomo quindi come artefice del declino di civilta' antiche come della stessa America odierna, nel ciclo infinito della storia.